Molti, anzi, soprattutto molte, sono state le ospiti che nel corso dell’ottava edizione di Piazzaparola (in scena dal 24 al 28 ottobre a Lugano) hanno preso la parola davanti a un pubblico incredibilmente folto – anche se, e lo diciamo con una punta di rammarico – declinato quasi prettamente al femminile. Le occasioni di scambio sono state molteplici, e oltre a diversi focus di natura letteraria sul ruolo della donna nella lettura e nelle lettere, vi sono stati momenti musicali, cinematografici ed editoriali. Il fil rouge della manifestazione, curata da Yvonne Pesenti e da Natascha Fioretti, era rappresentato dal romanzo per eccellenza sulla presunta pericolosità dell’erudizione femminile, ossia quell’ottocentesco Madame Bovary, che attirò su Flaubert gli strali non solo della critica del tempo, ma anche di cittadini e – probabilmente – cittadine che si credevano per bene.
Giovedì 24 ottobre ha incontrato il suo pubblico anche la psicanalista e scrittrice italiana Silvia Vegetti Finzi, da anni apprezzata collaboratrice di «Azione», per il quale cura la rubrica La stanza del dialogo. L’autrice di libri come La bambina senza stella, L’età incerta, Quando i genitori si dividono: le emozioni dei figli o L’ospite più atteso anche nel corso del recente appuntamento è riuscita a dare corpo a quella sua voce così inconfondibile, che la vuole preparata, dedita con intensità all’incontro con il prossimo, ma soprattutto in grado di comprendere e trasmettere con levità argomenti e tematiche complesse e particolarmente profonde.
Le abbiamo chiesto di parlare con «Azione» del suo rapporto con il romanzo di Flaubert e dell’attuale situazione del lungo percorso di emancipazione femminile di cui lei stessa è sempre stata protagonista attiva e attenta.
Silvia Vegetti Finzi, Lei afferma che Madame Bovary, scritto nel 1856, sia un libro che rischia l’estinzione. Eppure a distanza di oltre un secolo siamo ancora qui a parlarne, e a molti non sembra avere perso nulla della propria freschezza originale.
Il libro Madame Bovary, come tutti i classici, rischia l’estinzione per essere stato imbalsamato in uno stereotipo che pre-giudica la lettura, offrendo una risposta ancor prima di sollecitare una domanda. Come la coetanea Anna Karenina, Emma Bovary rappresenta la femminilità inquieta, incontenibile, non addomesticabile, l’isterica insomma.
Secondo Lei, nonostante l’epoca in cui fu scritto, un periodo cioè in cui i ruoli dei generi erano ancora estremamente distinti, Flaubert con la stesura del suo libro non aveva alcun intento moralistico. Come è giunta a questa conclusione, quando è proprio questa la lettura che buona parte della critica del tempo ha dato del libro?
Non credo che punendo atrocemente la sua eroina Flaubert avesse un intento moralistico, ma così il libro è stato letto ed utilizzato: come dissuasione e monito rispetto alla tentazione del sesso debole di abbandonarsi al sogno d’amore, all’assurda pretesa di una sconfinata felicità.
Più in generale, come romanzo di formazione, la tragica vicenda dell’inquieta Emma Bovary sembra ribadire la condanna che nel ’700, secolo dei lumi, colpisce l’immaginazione. Contrapposta alla geometria della ragione, la fantasia si rivela fluida, incontrollabile, trasgressiva, pericolosa per l’equilibrio individuale e la stabilità sociale. Tanto più quando dilaga nella mente femminile, fragile e vulnerabile per costituzione.
La fantasia come una cosa pericolosa, e siamo già nel cuore tematico della recente edizione di Piazzaparola. A differenza di oggi, si credeva addirittura che una fantasia troppo sviluppata potesse avere delle vere e proprie conseguenze fisiche per le donne. Ce ne vuole parlare?
Secondo i medici dell’epoca la fantasia, se troppo sollecitata, infiammava gli organi interni femminili provocando l’increscioso fenomeno della ninfomania, o «furore uterino», ossia un desiderio sessuale imperioso e insaziabile che, se non curato con diete, bagni freddi, abbigliamento essenziale, isolamento e perentorio divieto di leggere romanzi d’amore, avrebbe condotto alla rovina le giovinette e le loro famiglie. Un secolo dopo l’anatema si ripropone, ma questa volta in termini non organistici, bensì psicologici, non materiali ma spirituali – Emma è spinta al peccato e alla colpa, al disdoro e alla morte non dal corpo, ma dalla mente. Nel 1910, in un saggio psicologico Jules de Gaultier conia il termine «bovarismo ideologico» per indicare una sindrome femminile provocata dalla prevalenza della fantasia sulla realtà.
Lei a Piazzaparola ha cercato di proporre una nuova interpretazione del capolavoro di Flaubert...
Convinta che i classici, come afferma Italo Calvino, non finiscano mai di dirci ciò che ci volevano dire, io invito lettrici e lettori a rivolgere proprio a Emma Bovary i nostri interrogativi, a iscriverla nel nostro percorso, nella storia dell’emancipazione femminista e della liberazione femminile. In questa prospettiva lo stereotipo tradizionale – che utilizza il prototipo dell’adultera per rendere patologica la fantasia e interdire il piacere della lettura – perde di attualità e d’incisività.
Emma, enigmatica e complessa, contraddittoria e ostinata, procede abbandonando, lungo la corsa forsennata verso la rovina, i residui medievali della femminilità.
E noi donne del 2018? Da dove dovremmo partire per raggiungere una vera libertà?
Per cambiare il presente, per rinunciare alle rassicuranti certezze del noto, occorre che qualcuno lo avverta come insopportabile, che denunci il malessere che provoca, che testimoni, con la sua insofferenza, la necessità di rovesciare il tavolo e mutare gli equilibri esistenti. In fondo quella delle donne è l’unica rivoluzione del Novecento a non essere fallita, ma è anche l’unica che non si è ancora conclusa.