Sarà stato consacrato il portoghese Pedro Costa con un meritato Pardo d’oro o il premio sarà andato a una delle tante scommesse giocate dalla neodirettrice Lily Hinstin? Mentre scriviamo e cerchiamo di tirare le somme, mancano poche ore all’annuncio dei vincitori del 72° Locarno Film Festival. Un’edizione nell’insieme di buon livello, senza grandi colpi e con pochi veri personaggi di rilievo internazionale. Sarà ricordata però per il tutto esaurito in Piazza Grande per il magnifico C’era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino con Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, purtroppo senza la presenza di nessuno del ricco cast, ma con il pubblico a sfidare la pioggia per goderselo interamente. C’è stato un buon risalto per la Svizzera, dal Pardo alla carriera a Fredi M. Murer, con la riproposizione del fondamentale Höhenfeuer, e parecchia Italia. C’è stata un po’ di Hollywood con il Pardo d’onore a un regista fuori dai canoni come John Waters e il Leopard Club all’attrice Hilary Swank. Bella la retrospettiva Black Light, magari non così rigorosa nelle scelte come negli anni passati, ma con tanti titoli importanti e perle poco conosciute di registi di colore, americani e non solo. E sono stati in evidenza l’attore e il regista coreani Song Kang-ho e Bong Joon-ho (v. articolo sopra, ndr), il primo premiato con l’Excellence Award, il secondo ad accompagnare il suo attore feticcio e a presentare la recente Palma d’oro Parasite.
Conterà però molto il nome che sarà andato a succedere al singaporiano A Land Imagined di Yeo Siew Hua nell’albo d’oro. Il grande favorito è Costa, il nome più illustre tra gli autori in lizza, già Pardo d’argento per la regia nel 2014 con Cavalo Dinheiro. Vitalina Varela racconta la donna capoverdiana del titolo e la sua elaborazione del lutto per l’ex marito in una Lisbona che non conosce. Nell’oscurità delle immagini risaltano la pelle e gli occhi dei personaggi, nel dolore e nello smarrimento tornano i ricordi e si affaccia forse un barlume. Un film che parla di memoria, di amore, di scelte, di privazioni, di emarginazione, di senso della vita, tra inquadrature potenti e una spiritualità viva. Un film non facile, ma almeno una spanna sopra tutti. Gli immigrati di Capo Verde in Portogallo sono anche i protagonisti dello svizzero O fim do mundo di Basil da Cunha, che inizia con un battesimo e finisce con un funerale (quasi il contrario di Costa) e si sofferma su giovani marginali che vivono alla giornata in un contesto violento. Il risultato è però senza infamia e senza lode.
Già noto nei festival è il giapponese Koji Fukada, che ha portato Yokogao – A Girl Missing indagine su due livelli temporali dentro l’esistenza di una donna di mezz’età apparentemente tranquilla e dentro una società fragile. Ichiko lavora come infermiera in una casa privata: accudisce la nonna inferma, fa amicizia con la nipote maggiore, mentre la minore scompare. Si scoprirà che l’autore del rapimento è figlio della sorella della protagonista, che a sua volta non è del tutto estranea, mentre la pressione mediatica intorno al caso si fa soffocante. Fukada costruisce un elegante puzzle di piccoli pezzi, guardando ai classici del cinema nipponico.
Altro titolo che spicca è Last Black Man in San Francisco di Joe Talbot, già premiato per la regia al Sundance Festival. Un film sulla ricerca di una casa e di radici, con Jimmie Fails che cerca di recuperare l’abitazione costruita dal nonno in stile vittoriano. Talbot racconta, con un bel ritmo e personaggi profondi, il senso di comunità e le trasformazioni rapide di una città.
Tra i migliori anche il francese Terminal Sud di Rabah Ameur-Zaimeche, già in concorso a Locarno nel 2011 con Les chants de Madrin. Un film tra genere e fantapolitica in un paese immaginario del Mediterraneo sprofondato nella guerra civile e un medico scrupoloso posto di fronte a dilemmi morali e alla crudezza della situazione.
La giuria, presieduta dalla regista francese Catherine Breillat, potrebbe andare però su scelte meno ovvie e nomi nuovi. Alla gara mancavano temi ricorrenti, se non forse la storia e la ricerca della memoria, ed erano fortunamente assenti film su tematiche sociali o politiche esplicitamente attuali, sempre un po’ ricattatori quando si tratta di distribuire riconoscimenti. Una costante a parecchie opere era però un eccesso di pretenziosità, un voler essere molto più di quanto si riuscisse a essere.
Tra le novità, le migliori sono probabilmente A febre della brasiliana Maya Da-Rin e il francese Douze mille di Nadége Trebal, anche coprotagonista. Il primo segue un indio che lavora come guardiano tra i container del porto di Manaus, con una febbre strana e una tensione irrisolta tra i mondo primitivo da cui proviene e la civiltà dell’uomo bianco. Dodicimila sono invece gli euro di cui ha bisogno Frank, che crede che per farsi amare da Maroussia debba guadagnare quanto lei. Un film di belle intuizioni e una prima parte molto tesa, che si perde un po’ cercando di combinare il realismo con la componente visionaria.