Senza figli, e allora?

In «Lunàdigas» Nicoletta Nesler e Marilisa Piga sondano con grazia e ironia i sentimenti e la disposizione di quelle donne che per motivi diversi scelgono di non diventare madri
/ 07.05.2018
di Laura Marzi

Lunàdigas è un documentario uscito nelle sale per la prima volta a gennaio del 2015, è il lavoro di due amiche che collaborano da quasi trent’anni a progetti che vogliono raccontare in modo nuovo storie e condizioni sociali che non trovano spazio e nemmeno parole. Lunàdigas, infatti, è prima di tutto un nome, quello che i pastori sardi danno alle pecore nel periodo in cui non possono essere fecondate, non restano incinte. Nicoletta Nesler e Marilisa Piga lo hanno scelto perché nella lingua italiana, e non solo, manca una parola che descriva le donne che non sono madri. Come è evidente bisogna usare una perifrasi che contiene almeno una negazione: «non», «senza»... Allora meglio essere pecore nere, lunàdigas, che restare senza nome.

Il documentario tuttora in tour nelle sale italiane è il risultato di centinaia di interviste che Nicoletta e Marilisa hanno fatto girando per l’Italia, percorrendola da Nord a Sud, incontrando e interrogando donne di età diverse a cui hanno chiesto di raccontare perché non avessero avuto figli, quale fosse stata la loro storia, perché non avessero voluto o potuto diventare madri. Fare questa domanda significava anche rompere un tabù: le autrici, entrambe lunàdigas, si erano infatti rese conto che molto spesso chi non le conosceva mostrava qualche timore a chiedere loro perché fossero senza figli, come se le persone temessero che alla base di questa condizione ci sia un dolore, un trauma da dimenticare.

Non è sempre così e sono varie le donne intervistate che ammettono di non aver mai pensato prima a una risposta, fra queste c’è un’amica che vive oltreoceano e che compare nel documentario in una videochiamata skype, strappandoci un sorriso: «ci ho pensato per la prima volta grazie a questo progetto e le ragioni mi sono venute in mente molto chiaramente: non mi piacciono i bambini e io non piaccio a loro».

Il documentario, però, lungi dall’avere toni rivendicativi nei confronti di una scelta di libertà che le donne hanno il diritto di poter compiere, quella di essere appunto delle lunàdigas, ha il pregio indiscusso di proporre molteplici risposte, quante sono le storie di vita e di offrire quindi un panorama molto ampio di ragioni per le quali capita o si decide di non avere figli.

Ci sono testimonianze di traumi, di infanzie dolorose che si sono radicate nell’anima e hanno trasformato l’idea della maternità in un’esperienza di sofferenza: se era stato così per le loro madri, profondamente infelici di essere legate a una famiglia, allora come credere che sarebbe stato diverso per loro, le figlie? Poi ci sono donne che dichiarano che non diventare genitore è stata una scelta consapevole, che non ha creato conflitti interiori, dettata soprattutto dalla necessità vitale di non cedere libertà a nessuno, tanto meno al sangue del proprio sangue. Vengono anche svelate con ironia, nelle parti del documentario che cuciono le diverse testimonianze, in cui sono protagoniste Nicoletta Nesler e Marilisa Piga, molti stereotipi, alcuni dei quali ancora diffusi, sulle donne lunàdigas: che siano egoiste, incapaci d’amare.

Trovano spazio, poi, proprio grazie alla qualità dell’indagine da cui nasce il documentario, che non scaturisce dal desiderio di mostrare una verità preconfezionata, anche le voci delle donne che hanno desiderato tantissimo diventare madri, ma non è successo o che si sono rese conto di volerlo quando era troppo tardi.

Insomma, il panorama è davvero ampio e notevole è la complessità del tema, non solo perché si inscrive nelle vite personali e nelle sue stanze più private, ma anche perché il ruolo sociale di madre e quello di lunàdigas si trovano al cuore della costruzione sociale, dell’identità di genere, dei valori più profondi e condivisi su cui si fonda la nostra società.

Il pregio più raro di questo documentario sta poi forse nel suo sapere raccontare tutto ciò con una grazia e un’ironia che non è affatto scontato riscontrare in un lavoro così politico e quando in gioco ci sono discriminazioni, dolore e molto coraggio.