A metà degli anni Novanta, quando il web appena nato stava cominciando a rendere popolare Internet, filosofi e sociologi si erano fatti trovare puntuali all’incontro con l’innovazione, descrivendo in anticipo di vent’anni condizioni esistenziali oggi generalizzate. Il filosofo francese Pierre Lévy, per esempio, nel 1994 rifletteva già sulla compresenza di spazio reale e spazio virtuale, prefigurando l’odierna esperienza della telefonia mobile. Jean Baudrillard, filosofo e sociologo, l’anno successivo, con Il delitto perfetto, aveva compreso che i display avrebbero anteposto la simulazione al reale. Come già poco prima Tomás Maldonado scrivendo Reale e virtuale, con Data Trash i filosofi Arthur Kroker e Michael Weinstein nel 1996 avevano fatto una riflessione impietosa sull’impatto politico e culturale della realtà virtuale – mentre nel frattempo il sociologo catalano Manuel Castells stava scrivendo il suo fondamentale La nascita della società in rete.
Nel decennio successivo, mentre era in corso una globalizzazione che avrebbe emarginato chi non si fosse adeguato, fu messa una sordina alla «critica della ragion di rete» per dar risalto ad una narrazione collettiva che esaltava la figura di un uomo nuovo, finalmente libero di autodeterminarsi in un orizzonte digitale iperconnesso. Il disagio, quando non il rigetto, di questa nuova condizione esistenziale che ha fatto di tutti noi soggetti costantemente connessi ma, nello stesso tempo, senza più radici, era stato esaminato da Fabio Merlini nel 2009 con il saggio L’efficienza insignificante. Dopo aver esteso la sua riflessione sia alle nuove richieste di formazione, sia alle nuove forme del lavoro necessarie alla rivoluzione digitale, Merlini – direttore dell’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale – è tornato ad interrogarsi sugli effetti che l’«essere costantemente in rete» sta producendo sulle nostre vite, scrivendo il saggio intitolato Ubicumque con il quale ha rinnovato una radicale critica alla vita online in un momento storico in cui tutti ne stanno facendo esperienza.
Con le precedenti indagini sul tipo di formazione richiesta dalle nuove forme del lavoro al centro del quale stanno le due essenziali componenti della «comunicazione» e dell’«innovazione», Fabio Merlini aveva lavorato sul terreno dell’indagine condotta direttamente sul campo, laddove cioè si pratica formazione da un canto, e laddove, dall’altro canto, le nuove modalità di produzione chiedono ai lavoratori competenze e attitudini adeguate alle esigenze della massima flessibilità unita alla totale dedizione.
Con Ubicumque – che vuol dire «ovunque» e che designa una condizione esistenziale che non è più caratterizzata da un «qui e ora», bensì da uno stato di compresenza in più luoghi grazie alla «teletecnica» – Fabio Merlini è come se si fosse posto di lato, osservando le cose da punto di vista di chi vuole comprenderne il senso – dove per «senso» s’intende sia il loro significato sia la direzione che stanno percorrendo. Il punto di vista del filosofo.
Il concetto messo al centro di Ubicumque è quello di «mobilitazione totale». Si tratta di un’espressione presa in prestito da Ernst Jünger il quale, negli anni Trenta del secolo scorso, descriveva un nuovo tipo umano, il lavoratore, il quale, in netta contrapposizione con la figura dell’uomo borghese, si sentiva investito del ruolo di nuovo soggetto della storia, perfettamente adeguato a un progetto di rinnovamento sociale totale, che assumeva l’organizzazione razionale dell’officina come modello.
L’attuale «mobilitazione totale», secondo Merlini, è il nostro stato esistenziale, reso perennemente orientato alle esigenze del lavoro grazie alle tecnologie della comunicazione. In ogni momento, ovunque noi si sia, dobbiamo essere disponibili all’appello di uno qualunque dei dispositivi che ci portiamo appresso. Questa nostra sollecitudine ad essere convocati virtualmente altrove rispetto al luogo fisico in cui siamo è, per Merlini, la nuova forma della «mobilitazione totale», la quale produce conseguenze sia nel modo in cui percepiamo il tempo, sia nel modo in cui facciamo esperienza dello spazio.
Il tempo è diventato il presente senza durata della produzione e del consumo. Il presente continuo che viviamo è sostenuto da una narrazione collettiva che dichiara superfluo cambiare lo stato di cose vigenti perché la loro caratteristica principale è già l’innovazione. L’enfasi messa sull’innovazione sembra l’astuzia per mezzo della quale l’identico riproduce se stesso. A questo tempo che prolunga un presente sempre uguale, corrisponde uno spazio ormai privo di soglie. Le tecnologie della comunicazione annullano anche la distinzione tra dentro e fuori, e noi – costantemente in attesa di un appello tecnologico – perdiamo coscienza del danno prodotto dalla mancanza di una relazione emotivamente intensa con l’esperienza di essere totalmente presenti in un luogo e in un momento dati.
Lo sforzo di Merlini d’interrogare filosofi del passato perché ci aiutino a comprendere il futuro è percepito – lo dichiara lui stesso – come superfluo in quei luoghi della formazione e del lavoro che ritengono elemento d’ostacolo la riflessione sul senso delle cose che facciamo. Forse è il caso di ricordare che se la «mobilitazione totale» esaltata da Jünger ebbe nella seconda guerra mondiale la sua apoteosi, negli stessi anni Walter Benjamin osservava che chi tornava dal fronte mostrava di aver meno esperienza di quand’era partito, cosicché, se è vero quel che lo storico delle tecnologie della comunicazione Armand Mattelart ha sostenuto, e cioè che «la comunicazione è qualcosa che serve innanzitutto a fare la guerra», allora la «seconda mobilitazione totale» in corso è già una specie di guerra – una guerra che stiamo conducendo contro noi stessi, e se non ne stiamo facendo esperienza è perché accettiamo di ritenere inutili e improduttivi gli strumenti per comprenderla.