Quando il ventenne Didier Eribon lascia la nativa Reims per Parigi, lo fa non soltanto per proseguire gli studi di filosofia presso un’università – la Sorbona – più prestigiosa di quella della città in cui vive, ma anche, o forse soprattutto, per poter vivere liberamente la propria omosessualità, e allontanarsi da un ambiente sociale e familiare che gli è diventato insopportabile. In particolare, vuole prendere le distanze dal padre: un operaio di fede comunista, omofobo, «stupido e violento», per il quale nutre «odio e disgusto».
Per quasi trent’anni, dopo la laurea, Eribon non fa più ritorno a Reims, mantenendo un legame «il più tenue possibile» con la sua famiglia: una cartolina in occasione di un viaggio all’estero, una o due telefonate alla madre ogni tre mesi. In quest’arco di tempo diventa un sociologo e un filosofo di fama internazionale, scrivendo libri in cui analizza i meccanismi della dominazione, le forme di inferiorizzazione e di assoggettamento. Un suo libro del 1999, Réflexions sur la question gay, è considerato un testo imprescindibile nell’ambito degli studi gay, lesbici e queer. L’abbandono della provincia, la vita nella metropoli, il distacco dall’ambiente operaio, lo studio assiduo e la carriera universitaria, la frequentazione di persone di estrazione sociale molto diversa dalla sua, ne hanno fatto «un transfuga di classe», che si vergogna delle proprie origini.
Poco dopo la mezzanotte del 31 dicembre 2005 telefona alla madre per farle gli auguri, e viene a sapere che il padre è morto mezz’ora prima, nella clinica per malati di Alzheimer dove era ricoverato da tempo. Il giorno dopo il funerale (al quale non partecipa), Eribon si reca a Muizon, la borgata a venti minuti di macchina da Reims, dove i genitori hanno vissuto negli ultimi vent’anni. Rivede dopo tanto tempo la madre e parla a lungo con lei: del passato di entrambi, del padre, dei fratelli, di altri familiari. Tornato a Parigi, è sempre più ossessionato da una domanda: «Perché io che ho attribuito tanta importanza al sentimento della vergogna nei processi di assoggettamento e di soggettivazione, non [ho] scritto quasi nulla sulla vergogna sociale? […] La riformulo in questo modo: mi è stato più facile scrivere sulla vergogna sessuale che sulla vergogna sociale».
Una domanda e una constatazione da cui sgorgano, pochi giorni dopo il colloquio con la madre, le prime pagine di Ritorno a Reims (Retour à Reims): un avvincente saggio (scritto nel 2008 e pubblicato nel 2009) in cui si intrecciano racconto autobiografico e lucide riflessioni sulle divisioni sociali e sulle ragioni per cui, a partire dagli anni Ottanta, la classe operaia francese che si sentiva rappresentata dal Partito comunista si è progressivamente spostata a destra, arrivando in parte a votare, come hanno fatto il padre e la madre dell’autore, per il Fronte Nazionale.
Intenzionato a trasporre sulla scena il saggio di Eribon, Thomas Ostermeier, regista e direttore della Schaubühne di Berlino, ha progettato uno spettacolo variabile nella lingua e nella parte centrale, a seconda della nazione europea dove viene proposto. Dopo quelle di Manchester, Berlino e Parigi, ecco dunque la messinscena con attori italiani prodotta dal Piccolo Teatro di Milano e dalla Fondazione Romaeuropa.
Le tre parti che compongono lo spettacolo (la drammaturgia è di Florian Borchmeyer) sono ambientate in uno studio di registrazione. Nella prima, sedendo davanti a un microfono, Sonia Bergamasco è la voce fuori campo di un documentario, proiettato su uno schermo sospeso al centro della scena, che illustra con immagini in parte di repertorio alcuni momenti e luoghi della vita di Eribon (fra gli altri: il viaggio di ritorno a Reims; la partecipazione al programma televisivo Apostrophes; un frammento di colloquio con la madre, quella vera, pochi mesi prima della sua morte). Sonia Bergamasco legge alcune pagine di Ritorno a Reims, come farà anche nella terza parte, che vuole essere una riflessione più ampia sull’evoluzione della società francese degli ultimi decenni.
La parte centrale dello spettacolo è un dialogo tra Sonia, il regista Rosario (Rosario Lisma) e il tecnico del suono afro-italiano Tommy (Tommy Kuti), che nella finzione e nella realtà è anche un rapper. I tre «chiedono a se stessi e si domandano l’un l’altro cosa stiano facendo concretamente», in quanto attori e artisti, «per arrestare la deriva a destra del proprio paese» (parole di Ostermeier). A fronte della qualità del testo di Eribon, la pochezza di questo dialogo (tutto scritto: non ci sono battute improvvisate) mi ha gettato in uno sconforto aggravato dal pensiero di un teatro dove è sempre più scarsa l’immaginazione e sempre più invadente il didattismo. Per concludere: leggete il saggio di Eribon. In traduzione italiana, l’ha pubblicato Bompiani nel 2017.