«Sauvage», il corpo in balia del presente

Nel suo primo lungometraggio il regista francese Camille Vidal-Naquet si china sullo scabroso tema della prostituzione maschile di strada
/ 04.03.2019
di Muriel Del Don

Il primo lungometraggio di Camille Vidal-Naquet, sensazione assoluta dello scorso festival di Cannes (Semaine de la critique), parla d’amore, un amore folle che non conosce ragione o raziocinio.

Sauvage, come indica il suo titolo, si impone come un’opera grezza, ruvida e spigolosa nella sua ricerca di infinito. Il personaggio principale, Léo interpretato da un maestoso e sublime Félix Maritaud, non indietreggia di fronte a nulla: violenza, rigetto, emarginazione, poco importa la croce da portare, quello che conta è la bellezza effimera del presente. La disperazione e le difficoltà di una quotidianità vissuta sul filo del rasoio si trasformano attraverso il suo sguardo in tappe decisive di una via crucis che conduce all’amore assoluto.

Léo è un sex worker, rent-boy, hustler o qualsiasi nome anglofono gli si voglia affibbiare. Perché bisogna dirlo, la lingua di Dante non ha ancora coniato un termine specifico che definisca colui che vende il suo corpo (eccezione fatta forse per «marchettaro»), come a volerci inculcare l’idea che nella nostra società la prostituzione maschile non esista e se esiste deve rimanere nell’ombra. Insomma, Léo vende il proprio corpo per soldi alla ricerca di un affetto effimero che si trasforma spesso in violenza. Il suo quartiere generale è un parco dove si ritrova con i colleghi a caccia di clienti. Léo è giovane, di una bellezza ingenua e incosciente che ricorda i personaggi dei film di Pasolini. Il suo corpo è esposto allo sguardo di tutti, come fosse mercanzia. Malgrado il freddo Léo si esibisce, dà spettacolo di sé a clienti avidi di divertimento, tenerezza o cruda violenza. La sua attitudine è più quella di un «essere-corpo» che di un «essere-persona», un involucro di carne che porta i segni di una vita basata sulla sopravvivenza. La droga, i fugaci momenti di tenerezza condivisi con il «branco» tra un cliente e l’altro sono le uniche stampelle che lo tengono in piedi.

Camille Vidal-Naquet mette in scena la prostituzione di strada, i corpi devastati di uomini abituati a vivere nella precarietà più tragica. Niente escort di lusso dove l’atto sessuale a pagamento è nascosto dietro la parola «accompagnatore», qui la monetizzazione dei corpi è mostrata con brutale realtà. Malgrado ciò Sauvage non cade mai nella trappola della pietà compassionevole. Léo è ferito, martirizzato e rifiutato, ma mai sconfitto. La società in cui vive lo spinge verso i margini, lo vorrebbe annientare, sfruttandone il corpo nell’ombra, ma questo non gli impedisce di esistere. Poco importano le sue scelte: prostituirsi, drogarsi, amare un ragazzo senza essere ricambiato non è socialmente accettato, quello che conta è la libertà di vivere la vita scelta.

In quanto spettatore è difficile non sperare in una sorta di «happy end» (ed è quello che il regista sembra in un primo momento proporci) o per lo meno in un cambiamento che tolga Léo dai pericoli della strada. Lo sguardo senza filtri di Vidal-Naquet ci costringe però ad abbandonare questa speranza iniziale per riflettere in modo diverso. Cosa cerca veramente Léo? La nostra concezione di «happy end» – ossia una vita sicura accudito da un compagno amorevole che lo mantiene – è anche la sua? Il regista di Sauvage ci mostra un’altra via, un modo eccessivo e intransigente di percepire l’esistenza: «ho immaginato un outsider, un personaggio al di fuori delle regole, rigettato e alla ricerca dell’amore. Un personaggio che non si preoccupa della vita materiale e che non corrisponde a niente di quello che conosciamo delle regole sociali».

Per Léo scegliere di vivere al di fuori delle norme sociali è un atto politico involontario, un grido anticonformista all’insegna di un amore quasi mistico per l’umanità, intesa nella sua spesso crudele globalità. Il corpo di Léo è in effetti offerto a ogni sorta di clienti, a fantasmi che vanno dalla tenerezza alla brutalità. Nell’immaginario collettivo, colui (o colei) che si prostituisce è avvenente, curato, sano, a tratti asettico e impersonale. Nel caso di Léo e del suo branco (quella striscia nell’ombra), la realtà è ben diversa: feriti, affamati, stanchi e sporchi, la strada spinge questi ragazzi a sopravvivere come possono. I loro corpi diventano allo stesso tempo vittime della durezza della vita che fanno e oggetti di desiderio. Questa dualità è di una crudeltà sorprendente, un pugno nello stomaco che ci fa aprire gli occhi su di un mondo, quello della prostituzione maschile di strada appunto, troppo spesso ai margini.

Il cinema, soprattutto francese, l’ha rappresentato poco, eccezione fatta forse per J’embrasse pas d’André Téchiné, L’homme blessé di Patrice Chéreau e Eastern Boys di Robin Campillo. Vidal-Naquet affronta invece la tematica di petto, offrendoci un ritratto sincero di un essere umano più che di un «sex worker». La prostituzione è mostrata come un atto spesso meccanico che lascia però sui corpi delle tracce indelebili. Per Léo il lavoro è diventato normalità: egli non si lamenta mai, non cerca di uscirne ma al contrario accetta la situazione e la fa sua. Léo esiste quasi esclusivamente attraverso il suo corpo. Parla poco, si esprime più attraverso i gesti e i movimenti che la parola. La sua emarginazione sociale passa anche da questo, come se il suo statuto non gli permettesse di accedere alla parola, strumento di un’élite alla quale non apparterrà mai. 

Sauvage non è però un’analisi sociologica della prostituzione maschile, anche se lo stile quasi documentario ci spingerebbe a crederlo. Vidal-Naquet non intende mostrare o spiegare perché i suoi personaggi fanno quello che fanno. Quello che propone è piuttosto un’esperienza sensoriale, diretta e brutale che faccia «sentire» cosa significa subire l’esclusione sociale e la violenza. Sauvage è un’opera diretta, selvaggia come il suo titolo lascia intendere, illuminata dalla presenza del giovane attore francese Félix Maritaud, scoperto nel film di Robin Campillo 120 battiti al minuto. Maritaud incarna letteralmente il suo personaggio, lo abita grazie alle sottili tonalità della sua recitazione. Félix non recita Léo, Félix è Léo. Una performance impressionante che gioca sull’ambiguità e i sottintesi come a volerci ricordare che il cinema può, se lo vuole, trascendere il reale.