In Die Wahlverwandschaften di Goethe (Le Affinità elettive, in italiano), il grande scrittore tedesco paragona le affinità elettive fra persone con quell’affinità esistente fra gli elementi chimici, per cui questi tendono a legarsi con alcuni piuttosto che con altri. Per Goethe, anche le passioni umane sono la conseguenza di questa legge della natura e pertanto anche gli uomini, vittime di queste loro passioni e incapaci di sfuggire al loro destino, a dispetto di ogni ragione stringono rapporti tra loro spesso destinati a un luttuoso epilogo, come nel caso del capolavoro in questione, nel quale un neonato annegherà e due dei protagonisti non sopravviveranno. Il romanzo goethiano va certamente considerato uno dei massimi della letteratura, e un suo adattamento teatrale è di primo acchito un’impresa disperata, come lo è quello di tutti i grandi romanzi.
Nella consapevolezza di ripeterci, vien qui fatto di chiedersi come mai i registi di oggi, all’innegabile presenza di numerose opere in ogni epoca scritte appositamente per il teatro, debbano preferirne altre che invece per il teatro non sono state scritte. Ma tant’è, il contenuto delle Affinità elettive, offrendo una profonda analisi psicologica del comportamento umano e, nella fattispecie, del funzionamento o non funzionamento di una coppia, è già di per sé oltremodo drammatico.
Anche l’equilibrio di una coppia come quella composta da Charlotte (Julia Kreusch) e Eduard (Matthias Neukirch), perfettamente felice all’apparenza, si romperà ineluttabilmente all’arrivo di Otto (Hans Kremer), amico di Eduard, e di Ottilie (Elisa Plüss), figlioccia di Charlotte. Una vita prima tranquilla si trasformerà in un’inevitabile quanto pericolosa (per la stabilità della coppia ufficiale) partita a quattro, nella quale sono però le affinità elettive a vincere. Eduard non potrà che innamorarsi follemente di Ottilie la quale, malgrado i grandi sensi di colpa, lo ricambierà con giovanile ardore, e anche Otto e Charlotte si innamoreranno l’uno dell’altra ancorché, in virtù del loro carattere più freddo e razionale, meno appassionatamente.
Alla snella ma introspettiva messinscena attualmente in programma alla Schauspielhaus di Zurigo, e proposta dalla regista tedesca Felicitas Brucker (apparato scenografico di Viva Schudt, costumi odierni di Sarah Schwartz, musica di Marcel Blatti, light design di Christoph Kunz) va riconosciuto il rigore nel rispettare il corposo ed eloquente testo e, almeno in parte, la sua doviziosa simbologia, dunque nell’evidenziare i toni della trama: la Brucker lascia agire i quattro personaggi ora da protagonisti ora da concisi ma precisi narratori del sentire e dell’agire degli altri.
Si punta anche molto sull’ambientazione, con musiche, suoni e rumori e, soprattutto, con una scenografia per così dire doppia, in quanto rispecchiata dal basso all’alto grazie a un’indovinata struttura di specchi; una scenografia perfettamente in grado di trasmettere, anzi di visualizzare, quell’inesorabile attrazione fra elementi, in questo caso fra corpi, anime e menti, che è il motivo centrale della storia.
Bravissimi, plausibili e perfettamente calati nei loro personaggi, i quattro attori menzionati. Alla fine della première, applausi entusiastici e interminabili, e a giusta ragione, all’indirizzo di tutti i partecipanti.