Il Settecento a Bologna è un periodo di stasi. Pochi gli avvenimenti degni di nota. Si vive più che altro sugli allori dei secoli precedenti. Eugenio Riccòmini nel saggio introduttivo al catalogo della decima Biennale d’arte antica dedicato alla pittura del periodo e all’Accademia Clementina scrive con la sua solita verve: «Non ci sono né grandi eroi, né spericolati esploratori; né sollevazioni di plebi, né azzardati speculatori; non ci sono illustri pensatori in catene; e neppure baldracche di qualche statura».
Bologna è l’ultima città di peso nell’Europa continentale con un numero di abitanti che oscilla fra sessantacinquemila e settantamila. Insomma il punto di riferimento di una regione agricola che incontra contadini, artigiani e «dottori». Un intreccio di colto e popolare stigmatizzato dall’uso di intercalare il dialetto all’italiano. Tutto questo si riflette anche nella pittura. Un’unica nota, piccola, ma di grande enfasi. La diatriba sull’Accademia Clementina. O meglio, fra Giampietro Zanotti, autore fra l’altro della Storia dell’Accademia Clementina del 1739, e Giuseppe Maria Crespi, uno dei fondatori.
L’Accademia Clementina vede la luce il 2 gennaio 1710 con l’ambizione di raccogliere l’eredità della grande pittura bolognese del Seicento e di elevare i pittori dal rango di artigiani meccanici a quello di intellettuali. Giuseppe Maria Crespi, il più importante artista del periodo, dopo qualche anno se ne va accusando l’Accademia di conservatorismo. Giuseppe Maria Crespi è un personaggio bizzarro, non a caso viene soprannominato lo Spagnolo per via dei suoi abiti, ma non ammette tra l’altro che all’Accademia vengano affiliati personaggi diversi dai «maestri professori» come in effetti avveniva.
L’arte per gli accademici, come Zanotti, doveva seguire il «decoro», essere cioè appropriata e «non esibire soggetti o motivi di basso livello». Giuseppe Maria Crespi, al contrario, dipinge soggetti mitologici, pale d’altare, affreschi allegorici, ma anche scene di genere, popolari; mescola il dialetto all’italiano. «Un pensiero giusto da bestia», scrive Zanotti, che alla fine gli dà del matto.
A Giuseppe Maria Crespi (1665-1747) è stata dedicata un’importante esposizione, a cura di Andrea Emiliani e August B. Rave, nel 1990-91 alla Pinacoteca nazionale di Bologna e poi alla Staatsgalerie di Stuttgart e al Puškin Museum di Mosca. Fino al 3 dicembre la Galleria Davia Bargellini di Bologna affronta per la prima volta l’opera del secondogenito Luigi in una monografica che finalmente rende omaggio a questa figura un po’ bistrattata e dimenticata. Luigi Crespi (1708-1779) inizia la sua carriera nello studio del padre del quale segue le orme.
Le prime opere sono eseguite a quattro mani, tanto che, a volte, ne risulta difficile l’attribuzione all’uno piuttosto che all’altro. È un personaggio poliedrico. Nel 1748 diventa canonico di Santa Maria Maggiore e nel 1750 è nominato cappellano segreto di Benedetto XIV – cioè papa Lambertini, lo stesso al quale Giuseppe Maria dedica un ritratto. Ma è famoso come letterato. Più precisamente per la continuazione della Felsina Pittrice di Carlo Cesare Malvasia del 1678, una sorta di Bibbia sugli artisti bolognesi, scritta sulla scia delle Vite del Vasari. Il terzo tomo della Felsina Pittrice intitolato Vite de’ Pittori bolognesi, di Luigi viene pubblicato a Roma da Marco Pagliarini nel 1769, e non a Bologna, per via degli attacchi all’Accademia Clementina e al suo segretario. Sempre lo Zanotti.
Ma, come detto, Luigi è soprattutto un pittore. Marcello Oretti nelle Notizie dei Professori di disegno, cioè dei Pittori, scultori, ed Architetti bolognesi e dei forestieri di quella scuola del 1782 scrive: «Ebbe un particolare dono di ritrarre le fisionomie degli uomini, e ne fece una serie di Ritratti di Cavaglieri, e Damme, copiò assai bene le opere dei migliori Maestri e dei quadri del Padre… appari la sua maniera quali ornavano le prime Gallerie d’Italia e d’Europa». Di lui si conoscono tre autoritratti. Il primo giovanile del 1724-25 e gli altri due della maturità; nell’ultimo, datato 1776, donato all’Accademia di Venezia in occasione della nomina ad accademico onorario, si vedono chiaramente i volumi della sua Felsina, come in quello del 1772. Anche qui si presenta nella duplice veste di scrittore e pittore. Un viso sorridente, con gli occhi languidi e le lunghe mani affusolate. Con quella sinistra impugna la tavolozza e i pennelli e con quella destra una penna. In primo piano il volume delle Vite de’ Pittori bolognesi.
Dopo la morte di Giuseppe Maria nel 1748, Luigi prende una strada propria e, come annota Silvia Evangelisti, descrive con «molta finezza e acutezza» la borghesia e la piccola nobiltà del tempo. Tipico esempio il bellissimo Ritratto di una giovane dama con cagnolino del 1755 che raffigura una donna della famiglia Bargellini. Il dipinto, attribuito prima a Giuseppe Maria e in seguito a Luigi, mostra una leggerezza e una fine accuratezza dei particolari, tra fiori, pizzi e pellicce. Il cagnolino, poi, ha gli stessi occhi della dama. Dipinto a quattro mani con il padre è invece il Ritratto di un architetto, sicuramente Giuseppe Calzolari, còlto in un momento di meditazione con sul tavolo la riga e il compasso. Uno dei ritratti maggiormente intriganti è quello del conte Ferdinando Gini, giovanissimo, fresco di nobiltà. Il dipinto del 1759 è eseguito dopo l’ammissione del conte all’Accademia degli Argonauti. I suoi membri devono essere «i più abili, i più valenti, i più accreditati nelle Scienze, nelle Belle Lettere, nelle Arti cavalleresche, tra gli allievi del collegio dei nobili». Il quadro è pulito, accuratissimo e il giovane appare fiero e sicuro di sé con il suo fioretto affilato, il flauto e la marsina decorata.
La mostra bolognese presenta una ventina di opere: dal Ritratto del cardinale Prospero Lambertini di Giuseppe Maria fino alla Pietà, dipinta a quattro mani dal padre e dal figlio, passando per il Nudo maschile disteso di Ercole Lelli; una terracotta della fine degli anni venti del Settecento. Ma questa è un’altra storia.
La mostra si dipana all’interno del museo fra ventagli, orologi, bauli, cassepanche, presepi, ex voto, piatti, bastoni, aratri, chiavi, selle, mantici, campanacci, serrature, biciclette, maniglie… I dipinti conservati nel museo si trovano al loro posto appesi al muro, mentre quelli provenienti da fuori su basamenti grigio chiaro.
Bella, piccola esposizione, con un unico limite: la provenienza tutta bolognese delle opere dettata sicuramente dal budget ridottissimo a disposizione dei curatori. Tremila euro. Menzione particolare per il catalogo. Premesso che si tratta della prima pubblicazione dedicata interamente a Luigi Crespi, è da notare che, a mia memoria, è anche la prima nella quale si trova un saggio che stronca l’artista in oggetto. Giovanna Perini Folesani, che si prende tutta la responsabilità, descrive Luigi come «un mercante disinvolto e spregiudicato», un «millantatore a tutto tondo».
Comunque «pratica artistica, attività mercantile, abito talare, esibizione di onorificenze e diplomi veri o fasulli sono tutte manifestazioni di un’unica, prepotente ambizione, di un’inesausta volontà di autoaffermazione». In più è anche autore di una storiografia abborracciata e per finire un artista di mediocre talento. Quando si dice l’onestà intellettuale! Catalogo tutto da leggere; e da collezionare.