Ritorno alla tranquillitudine

A colloquio con Daniel Kemeny, che ha realizzato un docu-film su Pietrapaola, cittadina del Cosentino in cui ha origine la sua famiglia
/ 05.08.2019
di Laura Marzi

Daniel Kemeny è un artista svizzero, classe 1981. Con le sue sculture ha esposto in musei e istituzioni culturali di tutto il mondo. Il suo ultimo progetto nasce dal desiderio o dal bisogno di tornare al punto di partenza, nel paese dell’entroterra calabrese dove è nato e ha vissuto fino all’età di dodici anni, figlio di due genitori che all’epoca cercavano un rifugio dalla modernità.

Per la realizzazione del suo docu-film Futuro Semplice, prodotto da Cinedokke  e da RSI, ha deciso di rientrare a Pietrapaola, provincia di Cosenza, dove la comunità si è ridotta a 120 abitanti. Lo abbiamo incontrato per ascoltare la sua storia, l’avventura di chi ritorna in un luogo che gli altri hanno lasciato, sulla scena dell’abbandono.

Da dove nasce l’idea di un documentario su Pietrapaola?
Non è proprio un’idea, ma un’esigenza: raccontare il mio luogo d’origine. Nel 2012 ho avuto la consapevolezza che non potevo più delegare questa necessità di testimoniare ciò che era stato e che si stava perdendo.Il documentario nasce da un’istanza autobiografica.

Perché hai scelto il mezzo filmico per affrontare l’eterna questione della ricerca delle origini?
Forse per la voglia di cristallizzare la vita stessa, per fermare il tempo, ma anche per raccontare una storia. È stata una scelta spontanea e poi si tratta di un linguaggio che prevede immagini in movimento, quindi restituisce la vita in qualche modo, permette che diversi sensi si mescolino. È un mezzo direi quasi naturale: il cinema è più vicino alla vita.

Quali sono le cause della tua emigrazione «al contrario», da Nord a Sud?
L’immigrazione al contrario è stata quella dei miei genitori, che sono andati a vivere dove tutti stavano andando via. La mia non è una emigrazione, ma una forma di dedizione a un luogo che tutti avevano abbandonato. Il mio lavoro nasce e vive di questo vuoto lasciato dagli altri, in questa comunità disgregata in cui la presenza dell’uomo è più blanda e la natura prende il sopravvento. All’inizio del film il personaggio di Daniel, cioè io, soffre perché non trova ciò che ricordava di aver lasciato. Alla fine accetto ciò che c’è: quegli elementi che rendono la vita in sintonia col contesto secondo un criterio magico e religioso di giustezza.

L’abbandono di alcuni paesi dell’entroterra nel sud Italia è un fenomeno purtroppo abbastanza diffuso. Credi che la situazione di Pietrapaola e quella calabrese abbiano aspetti specifici?
Credo che i piccoli paesi siano un po’ abbandonati dappertutto nel mondo, non solo nel sud Italia. Tutti i territori sconnessi, difficili, lontani dalle vie di comunicazione sono coinvolti. In Calabria stessa ci sono molte realtà diverse: la zona in cui si trova Pietrapaola è quella dell’alto Ionio calabrese, che soffre un isolamento particolare, per una mancanza di infrastrutture e di sviluppo economico.

Negli anni 80 la popolazione ha voluto abbandonare i paesi dell’entroterra, perché erano troppi difficili, così nascono le «marine», costruite sulla costa: la voglia di modernità, la necessità collettiva di allontanarsi dalla tradizione latifondista che è stata fonte di tanta sofferenza ha portato la gente ad andare a vivere al mare, dove è tutto piatto, dove si può guardare lontano e non ci sono salite per tornare a casa e si può vivere in un appartamento, senza che il vicino di casa senta tutto quello che dici. Qui, lungo la mitica statale 106, sono state costruite case da cui gli anziani guardano le macchine passare, e sono tante. Eravamo abituati a vedere i vecchietti seduti davanti casa a osservare le persone, adesso guardano la statale, seguono con gli occhi il suo ritmo incalzante.

La comunità, che insieme a te è protagonista del film, come ha reagito al progetto del documentario?
Io sono nato a Pietrapaola e qui conoscono i miei genitori, quindi sono stato destinatario di una grande generosità, di tempo e pazienza. C’è stata una dedizione che definirei magica, perché non solo io ho creduto nel film, ci abbiamo creduto tutti.
Ci sono state diverse fasi e diverse reazioni: persone che non hanno mai voluto essere filmate, altre che si sono arrabbiate perché non erano nel film. La maggior parte degli abitanti di Pietrapaola ha mostrato interesse e io ho capito che per loro era come un faro di attenzione: quando arrivava la cinepresa era una cosa importante e dovevamo dirci cose importanti.

Nel silenzio della solitudine, a Pietrapaola svolge un ruolo centrale la musica. Ce ne parli?
Si tratta di un silenzio che permette di porre attenzione a ogni singolo elemento, di sentire il suono di una forchetta posata su un piatto, in una casa a 50 metri di distanza. Il ruolo della musica era molto forte in passato, era la più frequente forma di intrattenimento, di espressione. È intergenerazionale, si tramanda. Volevo mostrare quanto fosse necessaria: la musica mi si è rivelata come un’ancora di salvezza, in un contesto in cui ci si misura con l’assenza di altre espressioni artistiche.

Nella storia che racconti ad aiutare Daniel nella sua ricerca, a svolgere quello che Propp definisce il ruolo dell’aiutante, sono degli anziani e nel film colpisce la profondità e la confidenza delle tue amicizie con persone che hanno più del doppio dei tuoi anni. Che cosa ha permesso la condivisione di questo linguaggio comune?
Quando ho iniziato il film nel 2012, nel tragitto di 250 metri da casa di mio padre alla piazza dove parcheggio la mia macchina c’erano ancora 4 case abitate, che adesso sono vuote. Beh, mi capitava spesso di metterci mezz’ora per percorrerlo, perché ognuno richiedeva attenzione, con domande su di me e sulla mia famiglia e io dedicavo il mio tempo a queste persone, che poi ricambiavano a modo loro. Fare parte di una comunità come questa presuppone questo interesse, questo amore. Il ruolo dell’anziano come detentore di memoria è stato poi fondamentale per me, era la chiave per indagare il passato perduto che cercavo. Io non ho fatto altro che relazionarmi con chi stava intorno a me – qui ci sono molti anziani! Senza preconcetti, mi sono avvicinato al loro mondo, con cura.

Vedendo il documentario risulta evidente che la comunità che resiste a Pietrapaola ha un approccio all’esistenza che potrebbe essere definito, prendendo in prestito l’espressione di uno dei protagonisti Nicola: tranquillitudine. Ce ne parli?
Nicola dice: «la musica è una gioia, una bellezza, non saprei come dire, è una tranquillitudine». Per lui la tranquillitudine è appagamento. Non so quanto questa condizione sia quella della gente del paese, che più che resistere, esiste, senza eroismi, con normalità. Alla base del documentario c’è in effetti l’idea fondante che la normalità è speciale. Comunque c’è una scena che rappresenta il perdurare di questa tranquillitudine, in cui due protagonisti del documentario fanno il karaoke, senza pubblico, per loro stessi. Ho ripreso infatti un’abitudine che hanno davvero: la tranquillitudine del cantare per il cantare, che assomiglia a fare l’orto, al contatto con la natura, alla gioia senza pari di potersi dare tempo.