Per meglio capire Bruno Dumont – il regista francese pluripremiato a Cannes e autore di pellicole importanti come L’Umanità e P’tit Quinquin – occorre fare un passo indietro e ritornare alla sua tesi universitaria, in cui sviluppava un tema che era già un chiaro segnale di quello che era all’epoca ed è diventato oggi: Filosofia ed estetica nel cinema underground, si intitolava quel lavoro. Ecco, già dal titolo si intuiscono alcune delle linee direttive che prenderà il suo cinema. Il suo lavoro è infatti da sempre caratterizzato da produzioni dove il «cosa» è in funzione del «come», dove il contenuto dipende dalla forma. Dumont ha sempre cercato di fissare il suo sguardo sul mondo, facendolo in modo serio e drammatico all’inizio e con ironia e divertimento negli anni seguenti.
Lo abbiamo incontrato a Locarno, dove è venuto a ritirare il Pardo d’onore. Nelle risposte ci è parso diretto e schietto. Discorsi, i suoi, dove la filosofia si mischia all’esperienza di questi anni e all’aver capito come vi sia una stretta relazione tra gli opposti. Tra la commedia e il dramma, tra la vita e la morte, tra la realtà e la finzione cinematografica. È proprio da lì che partiamo con la nostra chiacchierata.
«Nel tempo ho compreso che il comico girava attorno al drammatico ed è importante la loro coesistenza per riuscire a veicolare al maggior numero di persone contenuti di sostanza. Inoltre ho preso atto che più si abbassa il tono drammatico più si alza quello comico e viceversa: in questo senso credo esista un legame stretto tra gli opposti. Quando per esempio con Juliette Binoche ho girato Ma Loute, che trattava di un soggetto drammatico, c’erano dei momenti in cui esageravamo e allora il tutto diventava ridicolo e quindi divertente».
Ma anche un altro fatto, più recente, lo ha divertito. «La seconda serie de le P’tit Quinquin mi è stata chiesta da Arte. Sulle prime risposi che io faccio del cinema e non delle serie, poiché le considero un’idiozia. Poi però mi hanno convinto e l’ho scritta, prendendola come un fatto divertente. È stato strano per me, perché mi è stato chiesto di fare una serie prima ancora di avere il materiale a disposizione. Ho quindi provato a fare della comicità partendo dalla mia piccola tragedia personale di autore. Ho esplorato il mio universo personale – un contesto drammatico – per costruire le scene, poi ho chiesto agli attori di rendere il tutto volutamente stravagante e mi sono accorto che questo contrasto suscitava divertimento, così ho continuato in questa direzione».
Interessante anche quello che il regista francese ci ha detto della durata della serie. «Ho scritto il soggetto senza sapere all’inizio quanti episodi volesse Arte. Se me ne avessero chiesti quattro glieli avrei fatti, se ne avessero chiesti dodici, ne avrei fatti dodici. Nella storia non sarebbe cambiato nulla perché sono in grado di sviluppare i personaggi, di inserire delle digressioni».
Aneddoti questi, sul suo modo di lavorare, ma con Dumont il discorso va sempre a finire sul filosofico e sulla funzione che deve avere il cinema. «Personalmente sono dell’idea che l’arte non sia solo divertimento ma anche educazione. Ognuno di noi deve liberarsi della cattiveria che naturalmente ci si porta appresso, ma come fare? Attraverso l’arte. È necessario dare alla società i mezzi per risollevarsi attraverso uno sport spirituale oltre che a quello fisico, e cioè con la rappresentazione artistica. Le bombe dobbiamo metterle nei film, non nella vita. Se qualcuno mette delle bombe nella vita sta facendo uno sbaglio cinematografico» afferma Dumont ridendo, e conclude con queste parole: «C’è una violenza sociale di cui tutti noi dobbiamo farci carico e credo che l’arte possa aiutarci in questo senso».
Operare in questo modo non è semplice perché il cinema, negli ultimi anni, sta andando, secondo il regista francese, in una direzione sbagliata. «Viviamo in un momento storico nel quale è stata data al cinema una funzione puramente ludica. Lo considero una catastrofe perché, così facendo, le persone peggiorano, mentre i film dovrebbero elevarle, farle crescere. Purtroppo l’industria cinematografica ha messo una sorte di velo sul cinema e lo ha fatto per sfruttare il pubblico, renderlo passivo di fronte alle immagini. Personalmente non mi vergogno nell’affermare che il cinema commerciale dei giorni nostri è davvero stupido. E la conseguenza è che oggi la gente non vuole più vedere un film di Bergman, ma solo produzioni senza senso. Un fatto molto grave e io lotto affinché vi sia un risveglio da questo stato quasi comatoso».
La lotta di Dumont continua con un occhio di riguardo alle vicende umane: piene di fatti drammatici, ma anche di molte risate. Emozioni che ritroviamo in ogni suo film.