Nella «skyline» di Londra, metropoli che osa e sa cambiare senza tradirsi, dal 2012 svetta «The Shard», la scheggia firmata Renzo Piano: con i suoi 310 metri, il più alto edificio d’Europa. Questo primato, nel frattempo forse superato da altri grattacieli, non figurava neppure fra le priorità del progettista. Piano, insofferente agli eccessi di spettacolarità, paragona le costruzioni agli iceberg: «Ciò che sta sotto è più grande di ciò che si vede». In altre parole, il contenuto, e quindi lo spazio dove si abita, si lavora, si presta servizio conta più dell’involucro, la facciata esteticamente ambiziosa, che magari diventa un corpo estraneo all’edificio, mentre dovrebbe esserne parte integrante. Solo attraverso il dialogo «fra dentro e fuori» l’opera troverà un aspetto coerente, la sua reale bellezza.
Com’è avvenuto nella «Shard», nuova frequentatissima meta negli itinerari turistici, e, in pari tempo oggetto di ammirazione, di perplessità, di polemiche. Ha dovuto, insomma, giustificarsi. L’architetto ha colto l’occasione per ribadire la necessità, inderogabile dal profilo economico, territoriale e ambientale, di «sfruttare la verticalità, imparare a costruire sul costruito, non espandersi ma diversificare». Anche la «Shard» nasce così. Partendo da una stazione sotterranea ristrutturata, si sviluppa su 74 piani, crea luoghi pubblici e privati, con destinazioni diverse: uffici, negozi, ristoranti, un albergo, una biblioteca, sale di spettacolo e uno spazio «dedicato alla meditazione». Nell’era del multiculturalismo e del laicismo, non si parla più di chiesa o cappella. E, di quest’era in divenire, la «scheggia» appare un simbolo persino inquietante.
Non da ultimo, per via di quel suo profilo seghettato che lacera le nuvole.
Dietro il quale ci sarebbe, invece, un’ispirazione prosaica e a noi familiare. «Ho pensato semplicemente a una scheggia di parmigiano», aveva detto Renzo Piano, a cena con Mario Botta, che mi ha riferito, più volte, l’aneddoto. Meno male: anche fra vip, a tavola si sa scherzare e relativizzare.
Ma, al di là della «Shard», caso chiacchierato, sta di fatto che, da decenni, l’architetto genovese ha stabilito, con la capitale britannica, una relazione intensa, in un clima di affinità e reciprocità. Molto deve Piano a Londra, e viceversa. Lo riconferma, quest’anno, la «Royal Academy of Arts» (RA) che, in occasione del suo 250.mo, ha inaugurato un’ala, ristrutturata da David Chipperfield, con la mostra: «Renzo Piano The Art of Making Buildings». E non è facile, anzi, tradurre, in termini espositivi, l’architettura. Per forza di cose, ci si trova alle prese con opere non trasferibili: si deve ricorrere a modellini, schizzi, frammenti, fotografie, filmati. Si propone una visione a distanza della realtà, con il vantaggio, però, di riepilogare un itinerario professionale di oltre mezzo secolo, in cui Piano si è mosso nei contesti più disparati. Lavorando nel vuoto, dove tutto era da inventare. O, più spesso, costretto a mediare con ciò che esisteva in precedenza: «L’eccesso di tradizione può paralizzare e occorre trovare l’equilibrio fra riconoscenza per il passato e desiderio di creare».
Sedici le opere, selezionate fra centinaia, che in questa retrospettiva illustrano le tappe più incisive di una carriera, in cui il talento coincide con il senso di responsabilità. Dichiaratamente, perché Piano si rende conto che «con l’atto di costruire si modifica un luogo per sempre, e quindi si deve anticipare il dopo». Si assume un impegno, magari osando, ma con un obiettivo chiaro. Com’è avvenuto, a Parigi nel 1971, con il «Centre Pompidou», progettato con Richard Rogers, collega e grande amico. Si trattava di un intervento radicale, sotto tanti aspetti, estetico, tecnologico e sociale: «Una sfida all’elitismo della cultura, chiusa nella sua torre, che qui diventava accessibile». E così è stato: nel cuore di Parigi, un museo diverso e una nuova piazza, accettati dal pubblico. «È come se il Beaubourg ci fosse sempre stato»: si sentiva dire Piano. Era il miglior complimento per un architetto «al servizio del cittadino».
Le persone e i luoghi rimangono, infatti, punti centrali nel suo lavoro. Ciò vuol dire flessibilità, in senso virtuoso: la capacità di adattarsi a territori, climi, materiali, tecnologie, sempre diversi, senza rinunciare alle proprie prerogative e origini. Una ricerca d’equilibrio, quindi, che associa leggerezza e dinamismo: è il contrassegno che si ritrova in edifici, sotto i cieli più lontani e destinati alle più svariate funzioni. Ecco l’«Auditorio Parco della musica» alla periferia di Roma, la «Menil Collection» a Houston, il «Kansai Airport» a Osaka, «Potsdamer Platz» a Berlino, il «Children Surgery Center» a Entebbe Uganda, la sede del «New York Times», lo straordinario «Centre culturel Tjibaou» a Numea, Nuova Caledonia, e, vicino a noi, il «Paul Klee Zentrum» a Berna e la «Beyeler Stiftung» a Basilea. E via dicendo.
In tutto questo girare per il mondo, Renzo Piano è riuscito a mantenersi al riparo dall’internazionalismo di tipo divistico. Guai a chiamarlo archi-star: «Significa aver cura più di se stessi che di quel che si fa». In pari tempo, ha tenuto viva l’appartenenza a Genova e al suo mare, cui lo unisce un legame spontaneo, insostituibile. Però non esclusivo. Parallelamente, è cresciuto anche il legame che lo unisce, da oltre mezzo secolo, a Londra. Era stata la «Swinging London» anni 60, di Mary Quant, dei Beatles, ma anche della pianificazione urbanistica e della sperimentazione tecnologica, ad attirare il giovane Piano, fresco di laurea e già autore di progetti originali. Bene accolti oltre Manica. Infatti, nel novembre 1967, furono esposti al centro «Advanced Study of Science in Art». Seguì, nel ’69, un’altra mostra, organizzata, questa volta, dall’«Architectural Association», che fiuta un nuovo talento tanto da offrigli la docenza presso la sua scuola, istituzione altamente prestigiosa. Piano avrà come colleghi Norman Foster, John Summerson, Charles Jencks.
E si sviluppa così un rapporto di scambi culturali e umani: da un lato, l’architetto genovese respira i fermenti innovativi della metropoli. D’altro canto, gli inglesi imparano ad apprezzare il design italiano, i colori del Mediterraneo e soprattutto il «senso della piazza». Che Renzo Piano ha cercato di proporre in versione londinese, nel «St.Giles Complex»: cinque edifici, dalle facciate di colori squillanti che racchiudono, appunto, una piazza. Un’opera recente e ancora da assimilare nella quotidianità londinese, con cui il progettista continua a mettersi, in gioco, anche rischiosamente.
Il successo di portata mondiale, le consacrazioni ufficiali (dal 2007 membro onorario della Royal Academy e dal 2013 senatore a vita della Repubblica italiana) non ne hanno fatto un personaggio ufficiale, una sorta d’intoccabile. Al contrario, prende posizione sui fronti più ostici della realtà contemporanea: innanzi tutto, le periferie da rendere vivibili, gradevoli anche esteticamente, perché «la bellezza aiuta a vivere meglio e in pace». Per Renzo Piano non è un’utopia. Ci conta, ci spera. Al punto da credere che il progetto per il nuovo «Ponte Morandi», che ha regalato alla sua città, si traduca, quanto prima, in realtà.