Monumentale e spettacolare, a dir poco: basta dire che la mostra curata da Germano Celant per la Fondazione Prada ha riunito oltre 600 opere – dai dipinti agli oggetti di arredo, dai modelli architettonici alle sculture – di un centinaio di autori e 800 documenti – fra pubblicazioni, lettere, fotografie, manifesti. Ed è proprio il documento storico il perno di questa esposizione che travolge lo spettatore con una marea di informazioni e lo avvolge in una complessa rete di rimandi e intrecci. Di certo Celant ha raggiunto a pieni voti l’obiettivo dichiarato di superare quello che lui stesso definisce «l’idealismo espositivo»; per intenderci, quella abitudine di presentare le opere avulse dal loro contesto storico e sociale e dalla loro funzione comunicativa, in uno spazio asettico. Il curatore, in collaborazione con lo studio 2x4 di New York che ha ideato un allestimento trompe l’oeil, ha puntato tutto sulla ricostruzione storica, ricreando parzialmente alcuni accrochage originali – per la precisione sono 24 – per restituire il contesto espositivo, in scala reale, di molte delle opere selezionate per la mostra milanese.
Da spettatori si ha l’impressione di aggirarsi davvero fra le sale della Biennale di Roma del 1925, di entrare nell’appartamento parigino del famoso collezionista Léonce Rosenberg, davanti ai Gladiatori di de Chirico, o di visitare la 35esima mostra internazionale di pittura al Carnegie Institute di Pittsburgh nel 1937 e non mancano preziosi esempi di arti applicate, né la proiezione di cinegiornali Luce in versione integrale.
L’esposizione milanese vuole restituire la complessità della stagione artistica in Italia fra le due Guerre, fra il 1918 e il 1943 (mentre proprio in queste settimane nelle sale cinematografiche italiane è «tornato» Benito Mussolini nella commedia di fantapolitica di Luca Miniero, regista che semplicisticamente e pericolosamente prescinde da un fascismo storico). Le fonti sono presentate in ricche bacheche: lo sguardo è continuamente diviso fra il richiamo estetico di alcuni capolavori – dai futuristi di Depero, Boccioni o Balla, da una Natura morta di Morandi che figurava fra i giovani artisti italiani in mostra a Berlino nel 1931 e le informazioni che trapelano da una lettera autografa, da fotografie, articoli e pubblicazioni. Non si fa in tempo a capire quali siano le corrispondenze e gli autori di testi programmatici, che si è catturati dalla tragica bellezza degli imponenti marmi di Adolfo Wildt della Biennale del 1922, autore dei primi celebri ritratti-busti di Mussolini, prima che diventasse il «duce».
Durante il Ventennio convivono più espressioni artistiche, di forza opposta e contraria; un’arte di propaganda dichiarata, un’arte «imperiale» e nazionalista, e le pulsioni sperimentali dei gruppi che si opponevano all’ufficialità istituzionale di Ritorno all’ordine; ecco quindi i protagonisti dell’antifascista Corrente, che è stata rivista fondata e diretta da Ernesto Treccani nel 1938, ma anche il movimento artistico omonimo a cui partecipano Birolli, Sassu, Guttuso, Vedova, Borlotti, Cassinari. O ancora i così detti Sei di Torino, città in cui spiccano in quegli anni le figure dello storico dell’arte Lionello Venturi e del pittore Felice Casorati: ecco allora un’arte che torna a toni più intimi dei paesaggi e dei ritratti di Carlo Levi o Enrico Paulucci.
Capitolo a parte forse meriterebbe l’architettura, con i suoi progetti realizzati (e quelli rimasti su carta), e i suoi protagonisti, fra gli altri Terragni, Libera, Piacentini, esponenti di quel razionalismo italiano che per la sua carica artistica rivoluzionaria si trova in consonanza con la «rivoluzione» politica che rappresenta il regime fascista. Ma fino a che punto si trattava di autentica adesione ideologica oppure di opportunistica necessità di riconoscimento ufficiale per poter contribuire a modernizzare la società? Un rapporto controverso quello fra stile e ideologia, al quale «Il Sole24ore» ha dedicato recentemente un dibattito sulle sue pagine, innescato da un articolo del «New Yorker» che si chiedeva perché l’Italia conservasse ancora tanti monumenti e simboli dell’era fascista.
Un regime che proclamava: «Il nostro mito è la Nazione, il nostro mito è la grandezza della Nazione! E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in una realtà completa, noi subordiniamo tutto il resto!». Un mito di grandezza rievocato con l’installazione al Deposito che ricostruisce la mostra dedicata al Decennale della Rivoluzione fascista del 1932 al Palazzo delle Esposizioni a Roma: otto enormi schermi sui quali scorrono gli ingrandimenti delle fotografie di alcune sale assegnate agli artisti di regime, come Sironi, Funi, Terragni, Nizzoli e Libera.
Qui la mania di grandezza tocca l’apice; negli allestimenti successivi il furore innovativo sembra stemperarsi, si avverte un ripiegamento verso atmosfere più crepuscolari, se non cupe, con l’avvicinarsi del 1943, e con i primi resoconti degli orrori della guerra: impressionano gli oli di Corrado Cagli che ritraggono gli scenari dei campi di concentramento. La figura del «duce» dal canto suo diventa ormai caricatura negli irriverenti disegni di Mino Maccari, fascista della prima ora convertito. Del 1943 è anche la mostra di disegni di Emilio Vedova alla Galleria della Spiga di Milano, chiusa a pochi giorni dall’apertura al pubblico dalla polizia politica; dopo l’8 settembre il pittore entrerà nella Resistenza.
Quale la tesi che sottende al progetto espositivo? Difficile dirlo. Resta l’ammirazione per un’impresa che lascerà il segno, ma anche una buona dose di frustrazione. Tutto questo susseguirsi di ricostruzioni, di opere e oggetti d’arte che diventano a loro volta documenti storici, disorienta dopo qualche sala; che infine si possa ricavare da questa mole documentaria e bibliografica una lettura dei fatti senza prima avere acquisito qualche competenza storica sembra davvero improbabile.