Radici, esilio e libertà

Sono molti i film che si chinano sui temi principali e più scottanti della nostra epoca
/ 06.08.2018
di Nicola Falcinella

Vanno alla ricerca della libertà i protagonisti dei primi film del concorso internazionale del 71esimo Locarno Festival, che si concluderà sabato sera con la premiazione. Uno è A Family Tour del cinese Liang Ying, già Pardo per la migliore regia nel 2012 con When Night Falls, che potrebbe lasciare il lago Maggiore con un secondo riconoscimento. L’altra pellicola è Tarde para morir joven della cilena Dominga Sotomayor.

Nel primo la regista cinese Yang Shu è da cinque anni costretta all’esilio a Hong Kong a causa della reazione governativa al suo film, sulla madre di un recluso. Ora vive con un marito fin troppo premuroso e un figlio piccolo, cercando di preparare un lungometraggio che racconti la rivolta degli ombrelli nell’ex colonia britannica. Quando riceve l’invito da un festival a Taiwan, la donna decide di portare con sé l’intera famiglia, compresa l’anziana madre che risiede ancora nella madrepatria, nel Sichuan, che non vede dal momento della fuga e che dovrà sottoporsi presto a un intervento chirurgico. Alloggiano nello stesso albergo e partecipano alle visite guidate in città previste per ospiti e turisti, scoprendo pezzi della storia e tornando a pensare alla divisione tra Cina continentale e Formosa. La permanenza sull’isola è anche l’occasione per parlare, ritrovarsi, fare il punto sul passato e il futuro. Il malore dell’anziana li riporta alla realtà, a una limitazione della libertà di movimento e a un controllo sociale cui è difficile sottrarsi. Una denuncia del sistema cinese, in un film dall’atmosfera rarefatta, che fatica però a definire personaggi e situazioni nella prima parte e ha bisogno di tempo per salire di livello.

È l’atmosfera più che la trama a guidare anche Tarde para morir joven di Dominga Sotomayor, ambientato negli ultimi giorni del 1990, in una piccola comunità sulle Ande. Varie famiglie si ritrovano in una sorta di comune per festeggiare Natale e Capodanno. Tra loro spicca l’adolescente Sofia, esuberante e tormentata, con un padre poco comunicativo e una madre che si fa attendere. E ci sono Ignacio e Lucas, che in qualche modo se la contendono. È un film che spiega poco, con belle immagini, coinvolgenti, anche seducenti, e in cui non succede quasi nulla, se non un piccolo furto, un incendio, le feste, i giochi, le uscite nella natura. Uno spazio di libertà per i sogni dei giovani e forse anche per le ripartenze degli adulti, dopo il periodo della dittatura di Pinochet.

Fuori concorso è molto interessante l’opera prima My Home, In Libya di Martina Melilli. Un lavoro indefinibile che è molto più di un documentario e parte da una vicenda personale. La regista, come dichiara all’inizio, è nata a Padova, mentre suo padre e suo nonno erano nati in Libia, dove la famiglia si era trasferita negli anni Trenta durante la colonizzazione italiana e aveva avviato un’attività commerciale. Nel 1970, con l’ascesa al potere di Gheddafi, avevano dovuto lasciare casa e negozio per tornare frettolosamente in Italia e rifarsi un’esistenza. Artista visuale attiva in diverse città europee, Melilli ha cercato più volte di avere un visto per visitare il Paese nordafricano, senza successo. Così entra in contatto, attraverso internet, con il quasi coetaneo Mahmoud, studente di fisica nucleare che sogna di lavorare all’estero. E se una cerca di ricostruire ciò che non le è mai stato raccontato, di vedere un luogo tanto evocato e immaginato, l’altro ha l’occasione per un contatto con chi sta fuori dall’atmosfera violenta, con milizie che girano, frequenti interruzioni dell’elettricità e difficoltà a condurre una vita normale.

Tra i racconti dei nonni, i messaggi sul computer, le vecchie foto e le immagini che il giovane filma, fino a far vedere come sono oggi le strade e gli edifici che erano della famiglia Melissi, si sviluppa un film che tocca tante corde. La regista riesce a far emergere storie e sentimenti di chi lasciò la Libia e di chi ci vive ora, evoca le paure dei migranti che oggi attraversano il mare, rende l’impotenza di noi europei che non sappiamo che fare, se non assistere. L’autrice racconta con partecipazione l’ieri e l’oggi, cerca di capire e mostra la nostra difficoltà di capire, nonostante l’empatia e l’amicizia che si creano tra le persone. Curioso, e poco investigato, l’effetto di ribaltamento che si creò nei primi anni 70 a proposito di chi rientrava: per molti erano «africani »da aiutare e mantenere, per altri erano fascisti perché non si poteva scindere la vicenda personale da quella dell’occupazione mussoliniana. Temi che riguardano molto il presente.