Si è inaugurata sul palco del LAC la 27esima edizione del Festival Internazionale del Teatro (FIT) con Avevo un bel pallone rosso, atto unico di Angela Demattè incentrato sulla figura di Margherita (Mara) Càgol, fra i fondatori della prima cellula delle Brigate Rosse con Renato Curcio, suo marito. Lo spettacolo, oltre a ricordare il 50esimo dal Sessantotto, si inserisce perfettamente nella tematica «rivoluzionaria» scelta dai curatori della rassegna: rivoluzioni piccole o grandi, episodi che hanno lasciato segni profondi, come nel caso della lotta armata in Italia, ma che prendono avvio da biografie o autobiografie incanalandosi in una drammaturgia che vede al centro l’individuo, come ci ricorda Paola Tripoli, direttrice artistica del Festival. Una prospettiva che peraltro ha a lungo alimentato anche la ricerca della storiografia sociale.
Avevo un bel pallone rosso ora è stato riallestito per il FIT (sette anni dopo il suo debutto a Trento) con la regia di Carmelo Rifici. In scena troviamo Francesca Porrini nel ruolo di Margherita (originariamente ricoperto dalla Demattè) e Andrea Castelli in quello del padre. Per la messa in scena Rifici si è avvalso di alcuni dei protagonisti della LIS Factory, progetto di LuganoinScena che mette in luce produzioni e coproduzioni di cui fanno parte anche realtà artistiche del nostro territorio. In questo caso troviamo Alan Alpenfelt come assistente alla regia, Zeno Gabaglio per le musiche (Canzone di Don Backy compresa, 1968) e Roberto Mucchiut per i video.
L’originalità della scrittura di Angela Demattè per Avevo un bel pallone rosso (Premio scenario 2015), consiste principalmente nella limpida forza con cui fa emergere pagine di umanità sofferta attraverso il dialogo fra padre e figlia utilizzando la carnalità del dialetto (trentino nella fattispecie) contrapposta a interventi in lingua che cadenzano lo scambio come una mannaia (pari all’asciutto cinismo dei comunicati brigatisti). La ribellione di Mara è nella cronaca del suo graduale abbandono dei valori della sua originaria civiltà contadina di forte impronta cattolica a favore della pratica rivoluzionaria che fa da sfondo all’amore per il suo compagno, in antitesi con lo scontro generazionale con il padre. Ne esce una biografia emblematica, un processo che porterà alla lotta armata contro il capitalismo e i suoi simboli, in cui «colpirne uno per colpire tutti» diventa lo slogan di una lunga e buia stagione.
La regia di Rifici è sobria, attenta all’efficacia dei dialoghi, pieni di rimandi cromatici in bianco e nero, pari alle immagini di cortei e scontri diffuse da un vecchio televisore, o alla gigantografia di Lenin proiettata sulla parete – che diventerà anche il primo piano del padre che si strugge sul destino della figlia. Un particolare che rimanda alla lezione di Milo Rau sull’ineluttabile ruolo dei video nella scena contemporanea. Nel confronto dialettico emerge l’umanità teatrale di uno straordinario Andrea Castelli, in scena con Francesca Porrini nel difficile compito di restituirci – con ancora qualche incertezza – la complessa personalità di Mara. Il tutto per uno spettacolo che racconta ferite ancora aperte e avvolte da inquietanti echi d’attualità sociale.
Un titolo enigmatico per una performance originale
EXP: je voudrais commencer par sauter è il secondo spettacolo che ha avuto il compito di aprire le porte del FIT al pubblico che, anche quest’anno, non vuole mancare ai numerosi appuntamenti proposti dalla rassegna luganese che si concluderà il 7 ottobre.
Così è stato anche per chi ha voluto vedere Francesca Sproccati al Teatrostudio del LAC in una performance coreografica da lei concepita con la collaborazione drammaturgia di Elena Boillat, entrambe in scena con Benjamin Burger. Ma chi si attendeva una vera e propria coreografia ha dovuto ricredersi: la Sproccati si è lanciata in una sperimentazione interessante e coraggiosa attorno al concetto di tempo. Un ardire filosofico sul concetto di Tempus fugit (per parafrasare Virgilio), su un’entità difficile da catturare e che oggi ci impone una riflessione su quel senso di assenza che agisce sullo stato di benessere intimo e collettivo, sulla capacità di misurare ciò che facciamo o che vogliamo fare.
È il senso di questa performance dove i movimenti, liberati dai corpi saltellanti a ritmo ossessivo, o in preda a rotazioni dervishi, sono pochi e rarefatti, lentissimi, quasi come per una sublimazione estatica, fra i variopinti frammenti di gommapiuma, in una cornice condivisa con il pubblico, distribuito nello spazio scenico e libero di muoversi e di sistemarsi dove meglio crede, fra ceppi d’alberi e cuscini. E dove i suoni e i corpi cercano lo spazio nel trascorrere inesorabile del tempo: EXP in definitiva è un metaspettacolo contemplativo che ha il pregio di non lasciare indifferenti.