L’umanità convive da sempre con le pandemie: il passato ci ha insegnato che pestilenze incurabili fanno regolarmente parte della nostra storia. Ultimo in ordine di tempo tra i flagelli che ci troviamo ad affrontare è il coronavirus, silenzioso e subdolo come da manuale.
L’arte, fedele specchio della società, non ha mai mancato di rappresentare anche questi difficili periodi attraversati dal genere umano, un po’ per testimoniare la gravità dell’evento, un po’ per cercare di combattere paura e sgomento con le armi della creatività (ciò che già Aristotele chiamava «catarsi artistica»).
Se ci chiedessero quale sia stata l’epidemia più tremenda che si è abbattuta sull’uomo, probabilmente molti di noi risponderebbero la peste nera del Trecento, che in cinque anni devastò il Vecchio continente riducendone di un terzo la popolazione e sconvolse l’intero assetto sociale, economico e politico dell’Europa di fine Medioevo. Forti furono anche le ripercussioni che questo episodio ebbe sull’arte, da una parte frenando bruscamente le innovative ricerche stilistiche incominciate da Giotto, dall’altra, però, alimentando lentamente quella svolta verso il Gotico internazionale che proprio al terrore e all’inquietudine avrebbe cercato di contrapporre l’amore per la vita e per la piacevolezza.
Tanti furono gli artisti che descrissero questi tetri anni pestiferi utilizzando soprattutto l’iconografia del «Trionfo della Morte», di cui esistono centinaia di versioni e di cui qui citiamo una delle più interessanti, l’affresco conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. Tema a carattere macabro diffuso perlopiù nell’area franco-tedesca e in quella alpina, questo soggetto fu proprio conseguenza diretta degli scenari apocalittici generati dall’epidemia che aveva riempito le città di cadaveri. Nei «Trionfi» la morte veniva raffigurata senza mezze misure (soprattutto a uso e consumo della plebe) come uno scheletro armato di falce che colpisce indistintamente poveri e ricchi, contadini, re e papi, per ricordare che dinanzi a essa tutti siamo uguali.
Un’altra pandemia che scombussolò il mondo fu l’influenza spagnola, che nel biennio 1918-19, con la Grande Guerra alle battute finali, decimò la popolazione mondiale causando oltre cinquanta milioni di vittime. Tra i deceduti ci furono anche Gustave Klimt ed Egon Schiele, quest’ultimo autore di un quadro simbolo della malattia, intitolato La famiglia, dipinto poco prima di morire. Più fortunato fu invece il pittore norvegese Edvard Munch, colpito dal virus ma miracolosamente sopravvissuto, come ci racconta la sua tela Autoritratto dopo l’influenza spagnola, in cui l’artista si effigia seduto su una poltrona, il letto sfatto dietro di lui, con lo sguardo rivolto allo spettatore e la bocca aperta quasi a voler urlare al mondo lo scampato pericolo.
Più vicina ai nostri giorni, anche l’AIDS, ribattezzata «la peste del secolo», negli anni Ottanta e Novanta assunse i tratti della pandemia, diffondendosi dapprima in America e poi nel resto del globo. Tra gli artisti che nei propri lavori affrontarono questa malattia ci fu Keith Haring, morto a soli trentuno anni dopo aver contratto il virus dell’HIV. Emblematica è l’opera Ignorance=Fear, del 1989, in cui il pittore e writer statunitense, con il suo stile inconfondibile post-Pop Art, rappresenta tre figure che mimano il gesto di non vedere, non sentire e non parlare, a denunciare la disinformazione dell’epoca sull’argomento nonché l’inadeguatezza della risposta del governo americano a ciò che stava accadendo.
Ed eccoci così, ai giorni nostri, di fronte a un nuovo flagello, a cui è stato dato il nome di Covid-19. Come avvenuto nelle epoche passate, anche gli artisti contemporanei, con modalità e intenti diversi, hanno fatto del pericoloso virus il soggetto delle proprie creazioni.
I primi a mobilitarsi sono stati gli street artist, «categoria» tra le più attente alle questioni sociali. Dopo la Monna Lisa di Leonardo e i due innamorati di Hayez immortalati con mascherina, Tvboy, writer siciliano attivo tra Italia e Spagna, poco prima di eclissarsi in quarantena è riuscito a regalarci un altro murales nella città di Barcellona, dal titolo I want you to stay home. Questa volta il protagonista è lo Zio Sam, che nella celebre posa con cui nel secolo scorso invitava i giovani americani a combattere nell’esercito adesso esorta tutti a trincerarsi in casa.
Un messaggio analogo arriva anche dall’opera di un altro street artist italiano, Nello Petrucci, che alla periferia di Pompei ha realizzato un collage su muro rappresentando l’iconica scena in cui la famiglia Simpson, protagonista di una delle sitcom animate più viste al mondo, è seduta sul divano di casa mentre guarda la televisione: qui però Homer, Marge, Bart, Lisa e la piccola Maggie indossano rigorosamente la mascherina.
Con intenzioni ben più provocatorie è nato invece il lavoro dell’artista Lynx Alexander (noto anche con il soprannome di «Tie Guy» per le sue eccentriche sculture che ama portare come fossero cravatte), una bizzarra mascherina che nei primi giorni di marzo il performer americano ha creato e poi indossato passeggiando per Times Square, in risposta all’altrettanto strambo atteggiamento iniziale del presidente Trump nei confronti della pandemia globale, definita una bufala diffusa dai democratici.
Ha del sorprendente, poi, ciò che l’artista britannico Luke Jerram è riuscito a fare con il Covid-19, realizzando l’esatta riproduzione del virus, desunta da immagini a microscopio, in un’elegantissima versione in vetro che ne ingrandisce le dimensioni di due milioni di volte. Lo scultore di Bristol, autore anche di grandi installazioni e progetti d’arte dal vivo, non è nuovo alla produzione di opere di «microbiologia artistica» con cui si diletta a trasformare temibilissimi virus e batteri in fragili ed eterei lavori plastici dalle forme perfette.
Non appartiene, infine, a un vero e proprio artista ma a uno scienziato con la passione per l’arte una delle più poetiche raffigurazioni del Coronavirus. A crearla è stato David Goodsell, biologo strutturale che dedica il suo tempo a studiare la morfologia dei microrganismi patogeni e che all’occorrenza impugna il pennello per mostrare ai non addetti ai lavori le vere sembianze di ciò che ci fa paura. I suoi acquarelli sono veri e propri «ritratti» del Covid-19 eseguiti rigorosamente a mano libera sfruttando i modelli forniti da tecniche sofisticatissime, come la microscopia crioelettronica: scientificamente accurate nelle forme ma fantasiose nelle tinte, è come se queste opere liberassero il virus dalle sue asettiche sembianze e da tutta la sua carica negativa, tramutandolo in una sorta di coloratissimo e innocuo fiore.