Quel rito collettivo che si perpetua

L’appuntamento in Laguna è un must assoluto per artisti, critici e cultori dell’arte – fra aperitivi, feste e il percorso espositivo vero e proprio
/ 20.05.2019
di Ada Cattaneo

8 maggio 2019, ore 22.30. Dal Ponte dell’Accademia. Il Canal Grande è un continuo susseguirsi di taxi, barche a noleggio, vaporetti stracolmi. Più di tutto, per chi conosce Venezia «fuori stagione», colpisce la quantità di luci accese ai piani nobili dei palazzi affacciati sull’acqua: si intravvedono i lampadari in vetro di Murano finalmente accesi ad illuminare cene e feste private, in dimore aperte solo per le grandi occasioni. Festa del Cinema, Biennale di Architettura e, naturalmente, Biennale d’Arte.

Il giorno dopo, sul vaporetto diretto verso l’Arsenale, due conoscenti si incontrano per caso. Il più anziano scrive per un giornale cittadino; l’altro è fotografo. Entrambi sono veneziani. «Allora, questa Biennale?» «Ieri ho visto i Giardini, oggi l’Arsenale. E poi una festa di finlandesi in Giudecca» «Mah, io mi son stufato: sempre le solite scemate. Ma per te che sei artista in bolletta, almeno te magni gratis». La visione locale non sembra distanziarsi troppo da quella globale, che ormai si riconosce nella Biennale quale rito collettivo, dal 1895. Un evento più mondano che intellettuale, durante il quale il popolo dell’arte contemporanea si riversa in laguna, facendo a gara a chi riesce ad ottenere l’invito per la festa più esclusiva. Chi di Biennali ne ha già viste troppe, neanche mette piede oltre i confini delle biglietterie: troppa fatica, troppa gente. Ma l’appuntamento veneziano è imperdibile per incontrare gli artisti e i collezionisti che si riversano in città, animandola ancora una volta, fra feste private, aperitivi al Danieli e colazioni al Caffè Florian.

È molto diverso il clima che respira chi sceglie, con un po’ di coraggio, di visitare le esposizioni. In particolare, per l’edizione 2019, sono le partecipazioni nazionali – più che la Mostra principale – a fare emergere una linea di pensiero comune, un sentire generalizzato che si percepisce in più di un padiglione. Il caso svizzero è alquanto emblematico: l’intervento di Pauline Boudry e Renate Lorenz è intitolato Moving Backwards («retrocedere», «tornare indietro») e si sviluppa attraverso la proiezione di un video, una pubblicazione e un intervento sulla struttura del padiglione nazionale.

Le due artiste che l’hanno concepito iniziano dichiarando la loro preoccupazione per il regresso – sociale e politico – a cui stiamo assistendo: rafforzamento dei confini fra le comunità, elogio di tradizioni reazionarie che sembravano ormai superate, cultura dell’odio e dell’esclusione. Le autrici suggeriscono allora di tornare sui nostri passi, per compiere un gesto collettivo che rifiuti il progresso forzato e ci dia l’opportunità di trovare strategie alternative, che abbiamo finora ignorato. Non lontano da questi concetti, nel padiglione tedesco, l’artista Natascha Süder Happelmann racconta gli esiti che isolamento e accumulo sfrenato possono avere sulla situazione sociale.

L’impressione che si coglie da molti interventi artistici è quella di una tendenza che va invertita, di una dinamica che ci sta conducendo nella direzione sbagliata. Questo vale in particolare per le questioni ambientali, affrontate da Francia, Spagna, Paesi nordici e soprattutto Giappone. È quest’ultimo padiglione di particolare interesse per la delicatezza con cui viene affrontato un tema così sensibile. La ragione sarà probabilmente che questo paese ha già iniziato a fare i conti con le conseguenze della devastazione ambientale ed è quasi paradossale che ciò avvenga a una cultura che ha fatto dell’ispirazione alla natura la fonte della propria innata grazia.

Per la presenza giapponese a Venezia, un collettivo formato da un artista, un antropologo e un compositore ha ideato un’installazione visiva e sonora che prende le mosse dalle «tsunami-ishi», enormi massi emersi dai fondali marini nel corso dei maremoti. Oggi sono attrazioni visitate dai turisti, ma allo tesso tempo accolgono colonie di uccelli migratori. Costituiscono biotopi eccezionali per insetti difficilmente osservabili altrove, ma hanno anche dato luogo a miti e leggende tradizionali. Queste conformazioni minerali servono a proporre l’idea di un’«ecologia condivisa», che riunisca diverse specie, diverse comunità e, con esse, i loro bisogni e le loro capacità.