L’ebreo Stefan Zweig non smise di sognare la felix Austria rievocata nell’autobiografia Il mondo di ieri, anche se il mito della sicurezza era ormai tramontato da tempo. Quella realtà era stata per lui, viennese della generazione dei vari Broch, Kraus, Musil, sinonimo di saldezza in cui tutto aveva una sua norma, un peso e una misura. Fu il paladino sentimentale e un po’ retorico di un passato mitteleuropeo riesumato con affetto, ma anche con la tragica consapevolezza di chi, dopo la prima guerra mondiale, scorgeva ormai di fronte a sé solo l’incertezza del presente.
Eppure nella sua scrittura sapeva ancora catturare il respiro della storia. Era capace di fissare in poche pagine un grande avvenimento o di dare vita a squisite biografie, tra cui quelle di Erasmo e Magellano, Maria Stuarda e Maria Antonietta. Oppure si lasciava attirare dall’estro e dalla curiosità fiutando imprevisti, capricci della sorte che hanno talvolta contrassegnato, in vario modo, non solo il destino di singoli individui, ma svolte epocali. Come nella singolare raccolta di medaglioni storici, Momenti fatali.
Leggendo però il lungo racconto Angoscia pubblicato nel 1920, che l’editore Passigli propone ora nell’ottima versione di Vittoria Schweizer, si scopre uno Zweig del tutto diverso, raffinato e ineguagliabile maestro della novella e divulgatore del freudismo in letteratura, che negli anni Venti aveva scritto bestseller con vendite da capogiro. Anche lui, l’ostinato e ricco umanista senza futuro, che non esitò ad aiutare finanziariamente l’amico Joseph Roth, all’avvento del nazismo, andò esule in vari paesi e alla fine sgusciò fuori dal proprio tempo con un definitivo salto nel buio: a sessant’anni, nel febbraio del 1942, si avvelenò con la sua seconda moglie a Petropolis in Brasile.
L’atmosfera dei suoi racconti, il chiaroscuro di coscienze obnubilate non segnalano solo le inquietudini e le disfatte di singoli individui, ma il clima di un’intera epoca, gli abissi e le solitudini di una società alla deriva. Una passione inafferrabile che il tempo vanifica, un amore febbrile che si stempera in un gioco di ombre, in un sentimento esangue fa spesso da sfondo, come nel bellissimo racconto Il viaggio nel passato del 1929, a una forte tensione fra desiderio e disincanto. Ad essa non si sottrae nemmeno Irene Wagner, madre di due figli e moglie apparentemente felice di un noto avvocato della ricca borghesia viennese.
La protagonista del racconto psicologico Angoscia non è una madame Bovary che cerca di sfuggire con l’adulterio alla mediocrità della vita di provincia. È piuttosto una signora che frequenta la buona società della capitale, appagata in apparenza dal suo matrimonio e dalla vita comoda e agiata che conduce. Ma una certa routine e l’attenzione verso l’inesplorato la spingono fra le braccia del giovane musicista Eduard. Del resto – ricorda lo stesso autore – «la sazietà non è meno eccitante della fame, e quella vita sicura e priva di pericoli aveva acceso in lei la curiosità per l’avventura». E le sorprese non mancano perché dopo uno degli incontri con l’amante la donna viene apostrofata da una sconosciuta che inizia a ricattarla. Il meccanismo del racconto è in apparenza piuttosto semplice: il ricatto sembra non aver fine, la donna cede per paura, paga a tace. Interrompe senza esitazioni il suo rapporto adulterino, ma non trova il coraggio di confessare ogni cosa al marito. Anzi, decide di farla finita: a questo punto la storia ha una svolta imprevista e forse non del tutto plausibile. Ma quel finale, che lasciamo alla legittima curiosità del lettore, è il momento culminante di una fortissima tensione che quasi ribalta il racconto in una sorta di thriller psicologico.
Zweig opera con la sua solita magia: rende imprevedibile anche l’in-treccio più semplice. I fatti veri e significativi non sono però legati alla realtà, ma alle reazioni che essa genera nella mente e nella coscienza di Irene. Il suo mondo interiore è la vera scena di Angoscia, i suoi turbamenti, l’abisso in cui è caduta, fra vergogna e profondo senso di colpa, che potrebbe annientare ogni speranza di ritorno. Fin dall’inizio quel legame non le crea che ansia e ogni volta si congeda dall’amante in preda ad un’agitazione incontrollabile: le ginocchia le si irrigidiscono in una morsa di ghiaccio mentre il battito del cuore sembra arrestarsi. Non c’è gioia né felicità – sembra intuire la giovane donna – al di fuori della norma e la sua stessa vita familiare, all’ombra del ricatto, si è trasformata in un incubo e nell’incapacità di rimettere ordine nel proprio mondo.
Zweig spinge quel processo fino in fondo per dare infine un senso al disorientamento: bisogna vincere l’estraneità che ci pervade e interrogare le nostre stesse certezze. Proprio il senso del pericolo che la circonda spinge Irene a guardare nel suo passato «come in un abisso». E cosa scopre? Che l’apparente sicurezza della sua vita le ha alienato gli stessi familiari, anzi le ha reso estranea «la sua essenza più intima, così come lo era quella dei propri figli». Forse ci voleva quella fatale infrazione per ritrovare un rapporto fra le cose, riallacciare veri legami e scoprire verità. Non senza l’aiuto segreto e misterioso di quel marito sensibile ma pericolosamente solerte che tutto aveva già intuito, vero deus ex machina di un epilogo in cui la sofferenza trova la strada verso la felicità. Uomini così c’erano forse solo nell’Austria felix sognata dal grande Stefan Zweig.