**(*) Logan – The Wolverine (Logan), di James Mangold, con Hugh Jackman, Patrick Stewart, Dafne Keen, Richard E. Grant (Stati Uniti 2016)
Logan–The Wolverine appartiene al filone cinematografico, non sempre esaltante, dei supereroi. Per sua fortuna, rimonta però nell’ispirazione ai tempi della Marvel Comics, i gloriosi fumetti che, a partire dal 1939, portarono alla luce l’Uomo Ragno, Hulk, gli X-Men, Conan il barbaro e tanti altri ancora. Prima di finire, nel 2009, nell’accogliente calderone della Disney. Salvo (probabili) ripensamenti, Logan dovrebbe poi costituire l’atto finale dei dieci film sugli X-Men. E, dettaglio ancor più rilevante per la legione di fedelissimi della saga sparsi in tutto il mondo, rappresentare anche l’ultima apparizione di Hugh Jackman nei panni sempre più sdruciti del mutante Wolverine.
Tutte questa scadenze, oltre alla recidiva di un regista ambizioso come James Mangold (Walk the Line, su Johnny Cash), hanno prodotto effetti benefici. Alquanto dissacrato, in questa sua terza avventura e a 140 anni dalla nascita, il leggendario mutante dagli artigli d’acciaio si ritrova a fare l’autista di limousine: invecchiato, ammaccato, compromesso nella celebre invulnerabilità da un virus che ne ha intaccato la corazza di adamantium (siamo nel 2029). Verrà facilmente localizzato, nei pressi del confine con il Messico, dagli inseguitori guidati dal raccapricciante dottor Zander Ric. Ma, pur se costretto a prendersi cura del suo vecchio professore (e in pratica, padre virtuale) morente, riscoprirà una propria umanità, proteggendo con le sue ultime energie Laura, la ragazzina dotata, a sua somiglianza, di strabilianti poteri soprannaturali.
Senza abdicare ai tradizionali effetti iper-violenti marveliani (avviso agli allergici) quest’ultimo Logan è allora infinitamente preferibile a un ennesimo action movie. Interiorizzato, tutto agli antipodi dei sempre meno eccitanti effetti speciali precedenti, il film è quasi un melodramma. Perfino un western, accorato e crepuscolare, non privo di momenti intimi, sulle tracce melanconiche di pellicole come Gli Spietati di Clint Eastwood o di Shane di George Stevens (1953), il capolavoro certamente ignorato dalle nuove generazioni, e qui doverosamente rievocato in sottofondo.
Un po’ prevedibile nella violenza, monocorde nella scelta del road movie, Logan è però saggiamente discreto nei trucchi. A sorpresa, politico e attuale nel suo modo di costringerci a riflettere sulla crudele assurdità dei confini. Nel ripeterci, nel suo bel finale, quanto poco fantasiosi siano quei giovani migranti costretti ad affrontare l’eterna condizione del diverso.