«Il livello più basso è rappresentato da quella che chiamerò, senza nascondermi dietro eufemismi di cortesia, l’anglicizzazione stupida, di cui sono vittima coloro che l’inglese magari manco lo sanno parlicchiare e probabilmente non dovranno mai usarlo nella vita per fare cose serie e per raggiungere risultati importanti».
L’editoria italiana vive da anni una ormai riconosciuta vague di omaggi in forma di libro per questa o per quell’altra lingua (di regola lingue classiche, su tutte il latino e il greco, ma anche l’italiano), delle quali si rinfrescano valori estetici ma anche storici e financo sociali dati ormai per precari. Può quindi colpire il titolo di questo L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua di Claudio Marazzini che, in quanto presidente dell’italiana Accademia della Crusca, dei tutori della nostra lingua non solo è tra i maggiori ma addirittura formalmente il capo. Il nome dell’autore ce lo fa pretendere estraneo ai pamphlet che fanno bella mostra di sé negli autogrill vicino a rotocalchi e accessori per i telefonini; d’altro canto e visto il titolo leggerino la lettura delle primissime pagine è tutta intenta alla ricerca del fondamento scientifico e delle novità di sostanza che legittimamente il lettore da questa fonte si aspetta.
Novità che non tardano a venire, soprattutto in due ambiti «principi»: i fondamenti storici dell’italiano e la battaglia (guerra?) che lo vede da un po’ impegnato in compagnia di gran parte delle lingue storicamente egemoni di questo mondo a fronte di un inglese sempre più impertinente. Non è per nulla scontato, per esempio che fino a tutto il Quattrocento tutti quelli che «tentavano di usare l’italiano» non avevano nessuna norma a disposizione, nessuno aveva deciso che le parole e le strutture della nostra lingua dovessero essere usate in un certo modo piuttosto che in un altro modo. Poi, la grandezza delle altre grandi lingue europee (siano esse l’inglese, il francese e lo spagnolo, meno il tedesco), la loro diffusione, il loro potere, forse lo stesso valore di scambio che queste lingue hanno nei secoli acquisito, si devono a eserciti e guerre, imperi e colonie; tanto che «non è l’esame di una storia pacifica, anzi si può dire che il successo internazionale di queste grandi lingue gronda violenza». Non così per l’italiano, per contro, il cui successo è legato a valori morbidi, superiori e disincantati come «l’interesse per la nostra cultura». Si potrebbe dire che affidarsi a rendite di posizione che hanno avuto dinamiche anche feroci è forse scelta precaria e comunque molto più esposta alle bizze della politica internazionale rispetto a quella che viene da valori più universali e meno misurabili come le arti, il bel vivere, la promozione spirituale.
All’inglese, come non si potrebbe, questo libro dedica decine di pagine, anche qui con qualche novità che converrà andarsi a leggere bene. Su tutte il fatto che il processo di promozione dell’inglese e di marginalizzazione dell’italiano in alcuni settori determinanti della nostra vita anche minuta e quotidiana (la sanità per esempio) viene un po’ dal basso, dagli inutili e talvolta ridicoli anglicismi che a tutti noi, chi più chi meno, capita pure di usare, ma viene anche e molto più pericolosamente dall’alto: da ambienti del mondo della ricerca e dell’università che vorrebbero imporre l’inglese a tutti, dalle istituzioni e dai poteri politici cui capita di sottoscrivere scelte scellerate in questo campo, dall’imperante e totalizzante mondo dei social media.
«Ormai il problema è un altro: cioè quello della scarsa fiducia che molti italiani hanno nella loro lingua, spesso questi italiani privi di fiducia sono proprio quelli che hanno più responsabilità della conduzione della vita sociale».