Poetry Slam: in gara con le parole

È di moda ormai la competizione fra poeti, su un palco affrontando il giudizio del pubblico
/ 27.04.2020
di Laila Meroni Petrantoni

È curioso. Se ci penso, l’immagine che mi si presenta nella mente non è quella di un palcoscenico, bensì di quell’angolo di Hyde Park, nel cuore di Londra, da tempo concesso agli oratori di ogni sorta in totale libertà: per tutti – non solo per gli anglofoni – è lo Speaker’s Corner. C’azzecca poco con il tema scelto oggi per questa rubrica? E invece, magari, un po’ sì.

Come in Hyde Park, anche qui abbiamo un coraggioso oratore che nel caso specifico si presenta come poeta: sale su un palco e di fronte a un pubblico lì apposta per giudicarlo inizia a declamare un proprio testo che chiama poesia. Prendiamo un certo numero di questi autori, che malgrado l’asserita fratellanza artistica un po’ si sorridono l’un l’altro a denti stretti perché in realtà sono su quel palco per gareggiare fra di loro, in fondo anche per essere eletti come vincitori unici della competizione «poetica». Questo genere di gare stile libero a suon di versi (nel senso artistico della parola… o almeno, quasi sempre) si chiama appunto Poetry Slam. Il nome è rimasto in inglese, non solo perché il fenomeno è nato a Chicago, ma anche perché forse in italiano suonerebbe un po’ stravagante: una specie di «colpo di poesia», anzi quasi un «colpaccio di poesia» (che ricorda quell’altro Slam, quello Grande, tanto ambito dai tennisti, definizione che va a stropicciare l’immagine di componimento delicato ed etereo ispirato da sentimenti ed emozioni; in pratica, un ossimoro).

Non ho mai assistito a un Poetry Slam vero, quindi non ho nessun diritto di alimentare pregiudizi. Il mio problema è il primo approccio avuto con questo tipo di gara, avvenuto pochissimo tempo fa: non di fronte a un palcoscenico – zona ormai proibita per colpa di un virus – bensì in rete. Dato che i Campionati svizzeri di Poetry Slam, previsti a metà marzo a Basilea, sono stati cancellati, il canale radio pubblico SRF 1 ha lanciato il «Quarantäne-Slam» organizzato secondo la classica formula dei vari turni; gli slammer (ecco, malgrado l’anglicismo preferisco questo termine piuttosto che «poeti») si sono misurati fra di loro con testi autografi e video autoprodotti in casa. In rigoroso schwyzerdütsch con relative sfumature regionali. Uno di questi, una giovane donna acconciata con treccine infantili, ha proposto il suo testo intitolato con una bella parolaccia. Non aggiungo altro, se non un «de gustibus non disputandum est», come tradizione comanda. E per la cronaca, la poetessa è stata scartata al primo round.

Passato lo shock, mi dicono invece che i Poetry Slam sono una cosa seria e da qualcuno di essi sta pure uscendo qualche nome degno di nota. Che a volte cede alle lusinghe della buona vecchia carta stampata entrando nel catalogo di qualche casa editrice. Come tradizione comanda.

Ma a cosa è dovuto il successo dei Poetry Slam? Quali pregi hanno? Certamente il coraggio dei partecipanti di mettersi in gioco, di tornare a onorare l’oralità degli antichi, di affrontare un pubblico che potrebbe anche rispondere con fischi (non guardate me, non lo farei mai…), di condividere e difendere davanti a perfetti sconosciuti un pensiero o forse anche un sentimento che bene o male si trasforma in parola espressa dalla propria voce e con l’ausilio del proprio corpo. Un po’ come succede in quell’angolo di Hyde Park, con in più il sapore dolceamaro della competizione.

Il Poetry Slam piace ai giovani, li spinge a giocare con le parole, li libera dai vincoli metrici e retorici della poesia classica. E secondo le statistiche, uno su mille ce la fa. Ai posteri – ma prima al pubblico – l’ardua sentenza.