Dove e quando
De Chirico. A cura di Luca Massimo Barbero. Palazzo Reale, Milano. Fino al 19 gennaio. www.dechiricomilano.it

Giorgio de Chirico, Autoritratto in costume da torero,1940. (Roma, Fondazione Giorgio e Isa de Chirico © Giorgio de Chirico by SIAE)

Giorgio de Chirico, Le muse inquietanti, 1925 (1947/1919) (Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea © Giorgio de Chirico by SIAE 2019)


Pictor Optimus

De Chirico a Palazzo Reale di Milano
/ 14.10.2019
di Gianluigi Bellei

Giorgio de Chirico (1888-1978) è un artista divisivo, per usare un termine in voga oggi. Anche per la critica. Roberto Longhi nel 1919 scrive: «Se già fosse chiaro che tale atroce strambo illustrazionismo non può che smemorarsi della pittura, verrebbe la voglia di chiedere come dipinga di grazia Giorgio de Chirico». Per Maurizio Fagiolo Dell’Arco al contrario «il vedente si trasforma in veggente, per far scoccare quella misteriosa scintilla che definiamo arte». Per Giulio Carlo Argan è un antirivoluzionario che con i suoi dipinti «non rappresenta, né interpreta, né muta la realtà: si pone come un’altra realtà, metafisica e metastorica». Con lui si parla di ritorno all’ordine, che all’inizio del secolo scorso, tra il 1919 e il 1925, ha il suo momento d’oro.

In Francia, fra gli altri, troviamo, oltre Picasso, gli ex Nabis e gli ex fauves; in Spagna Miró, Dali; in Svizzera Vallotton; in Cecoslovacchia Gutfreund; nei Paesi Bassi Albert; in Inghilterra Bell; in Italia Sironi, Funi e, appunto, de Chirico. Insomma un generale ritorno all’antico o rappel à l’ordre, come scrive per primo André Lhote su la «Nouvelle Revue Française» del 1919.

Proprio in quegli anni de Chirico scrive a Soffici che «bisogna tornare al classico, alla figura umana, alla divina pasta degli antichi e lavorare non meno di 8 ore al giorno». In dicembre sulle pagine di «Valori Plastici» si definisce Pictor classicus. Beh, visto che l’argomento è questo, l’appellativo che gli si dà a volte è Pictor Optimus. Apriamo una parentesi che è prettamente tecnica.

Lo so, rischia di diventare noiosa e pertanto sarà breve. Abbiamo capito che de Chirico pensa di essere il miglior pittore in circolazione e di conseguenza tutti gli credono. Qui, per non scrivere un saggio di pittura, facciamo solo due osservazioni. La prima si basa sul suo Piccolo trattato di tecnica pittorica del 1928. Scrive l’artista: «Il bianco, base della tavolozza, può servire usato puro o in fregature e velature…». E poi: «Bisogna sempre evitare di velare o sfregare con colori puri (eccetto il bianco)… bisogna sempre aggiungere a questi colori un po’ di bianco».

Tutti sappiamo che per lui il bianco è il colore metafisico per eccellenza, ma per un trattato generale questa affermazione è palesemente falsa. Per le velature infatti si usano colori trasparenti e il bianco non lo è. Si usano colori più scuri di quelli sottostanti e il bitume per esempio è eccellente per le velature finali e si usa rigorosamente da solo. Infine, un aspetto sicuramente non secondario per un artista che si rifà agli antichi è l’uso del colore. Qualsiasi mediocre insegnante d’arte vi dirà che le forme non sono delimitate da delle righe bensì da toni o colori diversi. Per dipingere un cubo, per esempio, è sbagliato tratteggiare i bordi con delle righe ma ogni facciata deve essere delimitata unicamente dai toni diversi così come tutto l’insieme.

Osservando le tele di de Chirico, soprattutto del primo periodo, si nota che ogni oggetto o figura, nella maggior parte dei casi, sono contornati di nero. Lo si può verificare nell’Autoritratto del 1912-13, nel Ritratto della madre e ne l’Incertezza dei poeti del 1913. Negli anni questo aspetto diventa meno usuale, e qui parliamo del periodo neobarocco, ma poi ritorna costantemente.

Magari, direte voi, il trattato è stato scritto nel 1928 e qui si citano lavori di 15 anni prima, ma il risultato non cambia visto che lo scontornamento è ricorrente nel tempo e la sua teoria delle velature con il bianco una vera follia.

In più nel 1945 Palma Bucarelli ne L’Indipendente scrive che «Il suo disegno è incerto e approssimativo… è così goffo e manchevole che non avrebbe interessato nemmeno la buonanima del Vasari. Quasi quasi pensiamo che quel mattacchione di de Chirico abbia voluto farci uno scherzo. Ma, intanto, è uno scherzo che dura da troppo tempo».

Insomma in anni di ri/flusso politico si ri/scoprono personaggi caduti per vari motivi nel cono d’ombra della storia, e allora tutto diventa eccelso e quindi il passo dai governi bellissimi a quello degli artisti bellissimi è molto breve.

Per chi voglia farsi un’idea personale, almeno su questo particolare tema, può andare a Milano a vedere l’esposizione dedicata appunto a de Chirico aperta a Palazzo Reale fino al 19 gennaio. La mostra è organizzata per temi e suddivisa in otto stanze; a dire il vero un tantino anguste e arzigogolate. Con i dipinti mal illuminati. Qui vengono affrontati i principali temi cari all’artista: le piazze, l’enigma della metafisica, il quadro nel quadro, il mito, i manichini, le stanze, i gladiatori sino agli autoritratti. Alcune opere provengono da importanti istituzioni museali ma molte sono di collezioni private. Il che, di solito, non è molto confortante.

Da segnalare il Centauro morente del 1909 e Le muse inquietanti del 1918. L’artista annuncia a Carrà di averlo terminato scrivendo: «Siamo i nuovi Vespucci, i nuovi Colombo. Portiamo in noi le tristezze e le speranze delle spedizioni lontane». Qui osserviamo tre statue-manichini. Uno in disparte in ombra, uno ritto in piedi su di un piedistallo e il terzo seduto con le braccia conserte e la testa appoggiata ai piedi in segno di estraneità. Sullo sfondo un castello, forse quello di Ferrara. Poi il magniloquente Autoritratto nel parco del 1959 e infine Le bagnanti sopra una spiaggia del 1934. Fra metafisica, surrealismo e neobarocco si consuma il percorso di un artista problematico ed eccessivo, amato o odiato. Tutto da vedere.