Dove e quando
Milano, Teatro Franco Parenti, fino al 17 novembre.


Persone reali e doppi virtuali

Marjorie Prime, un dramma fantascientifico sull’elaborazione del lutto e la memoria
/ 11.11.2019
di Giovanni Fattorini

La prima delle tre parti che compongono Marjorie Prime (finalista del premio Pulitzer nel 2015) può indurre il lettore o lo spettatore a inserire sbrigativamente il dramma di Jonathan Harrison nel catalogo ormai consistente delle opere (quelle cinematografiche costituiscono quasi un «filone» che sembra preludere a un «genere») i cui protagonisti o coprotagonisti sono in varia misura affetti da demenza senile, e più specificamente dal morbo di Alzheimer. In realtà, Marjorie Prime (da cui Michael Almereyda ha tratto un film uscito nel 2017) è un dramma fantascientifico sull’elaborazione del lutto, l’intelligenza artificiale e la memoria.

Siamo nel 2062, in casa di Tess (figlia di Marjorie) e di suo marito Jon (entrambi sui 55 anni e sposati da 29), i quali hanno tre figli che vengono nominati più volte ma non compaiono mai. Perché interloquisca con l’ottantacinquenne Marjorie (che da trent’anni è vedova di Walter), rallentandone in tal modo l’inarrestabile calo cognitivo (in particolare la perdita di memoria), Tess e Jon hanno acquistato dalla compagnia Anni Sereni un «Prime», ovvero un ologramma, che ha il nome e le sembianze del defunto Walter quando era poco più che trentenne (così lo ricorda e lo ha voluto Marjorie). Nel Walter virtuale vengono sommandosi sia le informazioni via via fornite da Tess, Jon e Marjorie, sia quelle che è capace di ricavare autonomamente, guardando, ascoltando e interrogando.

Dai dialoghi delle tre scene che compongono la prima parte del dramma veniamo a sapere, fra l’altro, che la giovane Marjorie era molto bella; che ha suonato come violinista in un’orchestra; che un famoso tennista l’ha corteggiata invano e le ha scritto lettere d’amore anche dopo che si era sposata; che ora soffre di artrite e le capita di farsela addosso; che si è addossata a lungo la colpa del suicidio di Damian, il figlio tredicenne; che un tempo Jon non le piaceva perché aveva la barba e apparteneva a una classe sociale inferiore alla sua; che ora si è ricreduta perché si è resa conto che al pari del defunto Walter «ha la faccia di uno con cui invecchiare». Da parte sua, Tess è irritata per il fatto che Jon, fornendogli informazioni, aiuti il Prime a fingersi una versione ringiovanita di suo padre, e la ferisce che Marjorie tratti «quel coso» meglio di sua figlia. Del resto pensa che la madre, in passato, non si è mai presa particolarmente cura di lei.

Non servono molte battute all’inizio della seconda parte per capire che Marjorie è morta. La figura seduta che tanto le somiglia è un ologramma, un Prime, a cui Tess sta dando informazioni sulla vita e la personalità della madre defunta. Nel dialogo fra Tess e Marjorie affiorano figure e motivi già presenti nella prima parte del dramma. Fra gli altri: il piccolo Damian, che Tess ha talvolta detestato perché in vita e in morte le ha sottratto l’affetto e il pensiero assiduo della madre; il progettato viaggio di Tess e Jon in Madagascar; la barboncina francese di nome Toni, e quella chiamata Toni 2, che Damian ha voluto portare con sé nella morte; i tre figli di Tess e Jon: Micah, Mitchell e Raina.

Durante il dialogo successivo fra Tess e Jon si registra un brusco cambiamento di tono. Tess è profondamente depressa: l’esistenza le appare come una ripetizione di gesti privi di senso, un ostinato sostenersi reciprocamente in vita, un distrarsi dalla morte. Lo dice con parole nette al marito, che si mostra allarmato e le chiede se non pensa che sia opportuno rivolgersi a uno psicologo. La Tess della scena successiva non è più lei, è un Prime, a cui Jon sta fornendo informazioni sulla Tess che durante il viaggio in Madagascar si è impiccata a un albero, alla prima luce del giorno.

La terza parte del dramma è la più breve. La didascalia iniziale recita: «Lo stesso salotto di prima, ma più spoglio. Un salotto che è un vuoto luminoso. La sensazione che sia passato molto tempo. Secoli, forse». In questo remoto, imprecisato futuro, Walter Prime, Marjorie Prime e Tess Prime stanno parlando «a proprio agio uno con l’altro, animati. Non robotici»: così recita la didascalia. E qui mi fermo per rispettare in qualche misura il divieto di spoiler.

Marjorie Prime è un dramma fantascientifico da camera, con rare azioni di carattere domestico e un dialogo fatto di battute in prevalenza brevi e mai banali, nel quale hanno grande importanza i silenzi e le reticenze. Un dramma che induce lettore e spettatore a porsi svariati interrogativi sulle prospettive (utopiche o distopiche) di un futuro in cui saranno sempre più compresenti persone in carne e ossa e fantasmi digitali. Sulla scena del Teatro Franco Parenti il testo di Jonathan Harrison raggiunge un’inquietante concretezza grazie al giovane regista Raphael Tobia Vogel e al quartetto di attori formato da Ivana Monti (Marjorie), Elena Lietti (Tess), Francesco Sferrazzi Papa (Walter), Piero Micci (Jon).