Per vendicare un piccolo indiano

A colloquio con il regista ticinese Fulvio Bernasconi, autore di «Miséricorde», in cartellone al Cinema Lux di Massagno e al Rialto di Locarno
/ 08.05.2017
di Nicola Falcinella

Un incidente, un inseguimento, una ricerca della verità, una richiesta di perdono, un superamento del senso di colpa. Sono alcuni elementi di Miséricorde del ticinese Fulvio Bernasconi, ora nelle sale del cantone, al Lux di Lugano e al Rialto di Locarno, dopo essere uscito in gennaio in Romandia, mentre si dovrà attendere l’autunno per la Svizzera tedesca. Una storia ambientata nei vasti paesaggi del nord del Canada, protagonista un taciturno poliziotto svizzero che sta ripartendo dopo avervi trascorso alcuni mesi di vacanza. Anziché prendere l’aereo, egli parte da solo per rintracciare il conducente del tir pirata che ha travolto un tredicenne indiano in bicicletta. Per il regista di Fuori dalle corde e Operazione Lombardia, un thriller on the road a contatto con la cultura dei nativi, con Jonathan Zaccai, Evelyn Brochu (era Sarah in Tom à la ferme di Xavier Dolan) e la partecipazione di Marthe Keller.

Fulvio Bernasconi, qual è stato il punto di partenza del film?
C’era uno scritto di Pierre Pascal Rossi, giornalista già sceneggiatore di Tout un hiver sans feu. Il produttore me ne ha proposto la regia, poi Pascal si è ammalato e l’ho sviluppato con Antoine Jaccoud. Il progetto è cambiato un po’, ma il Canada, l’idea del viaggio, dell’inseguimento e dei nativi sono rimasti.

Lei all’estero aveva già girato Fuori dalle corde, ma com’è stato lavorare in Canada?
L’audiovisivo là è un altro mondo, molto più professionale. In Svizzera ogni film è un prototipo, si produce poco e tutto è instabile. In Quebec si realizzano molte produzioni nazionali e americane: l’anno scorso il cinema ha smosso 800 milioni di dollari, generando un sistema virtuoso.

Anche gli attori sono stranieri...
Tutti gli attori sono canadesi, tranne Zaccai, che è belga, e Marthe Keller. Lei è una grande fan di Fuori dalle corde e, per lavorare insieme, l’ho fatta venire in un luogo sperduto nell’estremo nord. Evelyne Brochu in Canada è una star.

Il paesaggio è un coprotagonista di Miséricorde: quali sono state le sfide di girare in Canada?
Il paesaggio è centrale, una sorta di antagonista nella ricerca personale e nell’inchiesta. Doveva esprimere il dramma dei personaggi, perciò ho cercato un paesaggio che non fosse da cartolina, in una zona di miniere, soprattutto d’oro, in villaggi nati negli anni 60. Le distanze sono immense, ci sono state difficoltà, ma è stato anche un piacere: il paesaggio è grandioso, quasi da western, esaltante per uno come me, cresciuto con questo genere. Il mio è quasi un western psicologico.

Lasciando spazio anche per la cultura dei nativi.
Si tratta di un argomento molto sensibile. Sugli indigeni ho fatto molte ricerche, già da qui, poi ho visitato tre o quattro riserve, per scegliere dove girare. Infine ho fatto leggere la sceneggiatura per spiegare cosa intendessi fare. Nella comunità dove sono stato hanno avuto luogo due omicidi, c’è molta povertà e la situazione è tesa.

L’incendio del camion all’interno del film in qualche modo ha l’aria di una ribellione alle minacce che vengono dal di fuori.
La scena del camion è un’idea della comunità. Il senso è che la vendetta non si fa sulle persone, ma sulle cose, è l’oggetto che espia. C’è poi l’aspetto simbolico del fuoco purificatore. In generale la frattura sociale è grande, la comunità indigena isolata e il rapporto con i bianchi conflittuale.

Quasi tutti i personaggi cercano un perdono.
Sì, hanno bisogno di farsi perdonare. Volevamo fare un film laico sul tema del perdono, sulla difficoltà e la necessità del perdono. I miei personaggi hanno fatto un errore o del male e fanno fatica a vivere. L’idea di perdono è declinato anche in chiave sociale tra la comunità di indigeni e i bianchi.

La poliziotta incinta rimanda a quella di Fargo dei fratelli Coen.
Certo, ma non c’era il gusto della citazione, quanto più l’idea di maternità e paternità, e che perfino questo personaggio la incarnasse. 

Accettare che il colpevole sia colpevole è più difficile che trovarlo.
Sì, c’è un colpo di scena. Il mio non è un classico film d’inchiesta dove trovare il colpevole, ho preferito infatti mettere il protagonista davanti a un dilemma morale. Non è facile accusare, anche il colpevole è un essere umano.

La ricerca della verità e del colpevole di un incidente ricorda il recente Moka di Frédéric Mermoud. È una tematica «svizzera» o piuttosto una questione generazionale?
Ho frequentato la scuola di cinema con Mermoud e abbiamo vissuto insieme. I progetti sono nati in parallelo, non ne abbiamo parlato. L’analogia tematica è più frutto del caso che di uno Zeitgeist, ci accomuna più il modo di lavorare che i temi.

Ha pensato a un film in Ticino?
Mi piacerebbe perché in Ticino ho girato poco, a parte La diga. C’è un libro che mi piacerebbe adattare. Cocteau diceva che il poeta deve cantare sul proprio albero genealogico. Mi piacerebbe realizzare qualcosa che parlasse del Ticino di oggi, una regione così diversa dal resto della Svizzera con una società per certi versi in crisi