Bibliografia
Miriana Trevisan, La donna bonsai, Milano, Baldini&Castoldi, 2019.


Per sempre bambine

Nel suo primo libro la ex Non è la Rai Miriana Trevisan racconta il destino di molte ragazze che tentano la via del successo
/ 28.10.2019
di Laura Marzi

La donna bonsai è un titolo evocativo, racconta la perfezione costretta, tutta a vantaggio di chi guarda: il bonsai non ha la dignità dell’albero, la sua potenza, sembra più un soprammobile. Si chiama così il romanzo di Miriana Trevisan, volto noto della TV di vent’anni fa, di quel programma di cui si è detto e scritto molto: Non è la Rai. Il testo arriva dopo la partecipazione attiva e coraggiosa di Trevisan al #MeToo, che le è costata una denuncia per diffamazione accolta dal giudice per le indagini preliminari che l’ha rinviata a giudizio.

Leggendo i primi capitoli si deduce che la scelta della soubrette di scrivere sia stata dettata dal bisogno di testimoniare la propria innocenza alla pagina bianca, che non ha pregiudizi. L’innocenza della ragazzina che inconsapevolmente entrò in quel circo che nel romanzo non si chiama Non è la Rai, ma L’America. Nei primi capitoli, infatti, la protagonista Virginia è davvero una ragazza acqua e sapone come chi di noi guardava il programma – ed eravamo in tanti – ricorda Miriana. E poi mora. Ci sono riferimenti, infatti, alle sfide tra ragazze bionde e brune così importanti non solo per quel programma, ma più in generale per la televisione italiana: basti pensare a tante edizioni di Sanremo.

Date le somiglianze, quindi, tra Virginia e l’autrice e dando per scontato il carattere autobiografico del testo, dopo qualche pagina ci si domanda perché Trevisan abbia scelto di creare l’alter ego di Virginia, invece di raccontare in prima persona, di assumere il corpo della sua protagonista. La risposta è inaspettata. La storia di Virginia che assomigliava tanto a Miriana si conclude dopo qualche capitolo, lasciando spazio a una certa Anastasia. Il suo vero nome è Maria, proviene da un paesino di provincia del sud Italia e vuole riscattare la povertà in cui vive con la madre e il fratello, a seguito dell’abbandono del padre. È anche lei innocente, quindi, ma in modo del tutto diverso da Virginia, che non si è mai compromessa. Anastasia accetta le regole del gioco, di «stringere relazioni», comincia da un’orgia e continua sulla via della prostituzione e della tossicodipendenza in cambio di abiti, droga e denaro. Poi il racconto prosegue con Sonia, giornalista, donna di talento e potere, entrambi vanificati da una relazione matrimoniale con un uomo orrendo: un carnefice. E infine Beatrice, che pur lavorando in un ambito dello spettacolo molto diverso dalla televisione, ha pagato – e tanto – le conseguenze della violenza maschile sulla sua carriera.

Al lettore a cui Trevisan si rivolge nei ringraziamenti questo collage di storie inaspettate fa sicuramente l’effetto dello spaesamento. Si capisce alla fine che l’autrice desiderava rappresentare le vittime come monadi, per raccontare che l’isolamento, la famigerata mancanza di solidarietà fra donne, è una condizione fondamentale per il perpetuarsi di violenza e ingiustizia. Si resta in ogni caso interdetti.

Il libro è interamente costruito sull’innocenza delle vittime, che hanno un profilo solo tratteggiato, non sono personaggi, ma pezzi di un puzzle volto a rappresentare il mostro. Sia l’innocenza, però, che la condizione di vittima, sono due aspetti che il pensiero critico femminista ha cercato di scardinare, non già per dare colpe alle donne, ma per liberarle da uno schema di passività. Lo spaesamento non nasce però da questo apparente conflitto tra Trevisan e il femminismo, ma dal fatto che il #MeToo è stata la denuncia contro un potere così gretto e bestiale che rende davvero le donne vittime innocenti.

Anche per questo il movimento ha generato un corto circuito così potente: ragazze che decidono di lavorare con la propria immagine – attrici, ballerine o soubrette che siano – rivendicano un’innocenza che nel patriarcato è riservata alle donne che ignorano il proprio corpo, almeno fino a quando esso non partecipa della procreazione. Sembra impossibile che sia ancora così, eppure l’opinione dilagante rispetto al #MeToo è stata che quelle donne se la andavano a cercare, avevano una colpa: voler lavorare usando il corpo, sfruttandone bellezza e sensualità.

In questi mesi la Harvard Business Review ha pubblicato la ricerca condotta da un gruppo di studio dell’università di Houston, guidato dalla docente Leanne Atwater, che a partire da questionari somministrati a centinaia di uomini e donne tra il 2018 e il 2019 ha portato a conclusioni inquietanti. I risultati di questi test mostrerebbero che a seguito del #MeToo sia le donne che gli uomini sono più restii ad assumere ragazze attraenti e il 27% degli intervistati ammette di evitare adesso incontri e riunioni con colleghe, o viaggi di lavoro.

Il bonsai è l’emblema del ridimensionamento. Nel testo di Miriana Trevisan il titolo racconta bene degli imperativi categorici ancora in vigore: se vuoi essere bella devi restare piccola, se vuoi essere innocente non devi essere visibile. In questo periodo, però, fortunatamente sta avendo seguito il progetto Plant-for-the-Planet: sarebbe bello se le battaglie contro la violenza sulle donne avessero lo stesso successo, se assomigliassero a longeve, magnifiche querce.