Per evitare giorni aridi

Il viaggio di Tommaso Giartosio alla scoperta del padre, ma anche di se stesso
/ 24.02.2020
di Guido Monti

Tommaso Giartosio è in libreria con la sua prima raccolta poetica dal titolo Come sarei felice. Storia con padre (Einaudi, pp. 140, euro 12) e sicuramente per forza di dettato, profondità linguistica, intuiamo di esser davanti a un autore che di là delle sue molteplici attività culturali, vorrei ricordare tra le altre la curatela di due scrittori sommi quali Christopher Isherwood e Nathaniel Hawthorne, lavora da tempo con umiltà e alacremente nell’officina del verso, affinandosi sempre più e offrendo ora una prova rilevante.

Talune poesie del libro furono infatti pubblicate nel 1996 e poi ancora nel 2014 nella rivista «Nuovi Argomenti»; ora l’autore le ha immesse in un flusso più ampio, dando a esse un posizionamento dentro una scrittura che potremmo definire aperta, proprio perché il suo tempo poetico schiuso alla risonanza, ha un continuo punto di ripartenza e mai di fine.

Una raccolta dove l’autobiografismo non è cascame diaristico ma un potente strumento di interpretazione del reale che interroga il lettore e la sua intimità. Difatti sin dalle prime pagine, cammina nei versi la figura del padre, giovane ufficiale di marina al tempo della Seconda guerra mondiale ma non certo col passo marziale; costeggia invece le pieghe della vita con modi tutt’altro che austeri traversando le sue relazioni, anche più intime, col pudore della discrezione, quasi in punta di piedi: «La conversazione, la cena, s’impuntava su un sostantivo. Con un respiro greve ti alzavi da tavola, scomparivi in salotto per l’abboccamento con la Treccani…». Giartosio quindi incide i gesti del padre dentro quelle verità che sole possiamo afferrare nei frammenti dei giorni.

Quali giorni? Potremmo chiederci; ecco quelli che lampeggiano nel primo capitolo dal titolo Vivere, vengono dall’intensità della pura rammemorazione e poi miracolo subiscono in quelli successivi, Cristallizzarsi e Le notti Bianche, una curvatura inaspettata che imprime agli stessi una visione rafforzata, con l’aprirsi del tempo del sogno e degli spazi mortuari che si allungano dopo il decesso dell’ammiraglio. Memoria quindi non più solo rammemorante ma ricca di nuove aperture di senso: «Ora è di pietra il nodo della cravatta. / La camicia è perfetta da non stirarla più. / Il soffice della guancia non si affloscerà. / Diventa nudità il vestito, ritratto il viso. / …».

E ancora nella dimensione onirica, libera, i vivi giocano con i morti e la forza dei corpi nella loro volatilità, è pregna di presentimento, tanto da esser questo tempo notturno e parallelo, quasi il tempio della verità che si sfarina talvolta in un urlo soffocato o nel gesto irreversibile che indica morte talvolta vita: «– Papà, com’è? – Ti sei / voltato piano a me / socchiudendo le ciglia: / – È il sonno. – E io sono / corso le mille miglia / per uscire dal sogno, / non essere tuo figlio».

Giartosio ci parla dalla stanza onirica di una realtà che da il là a un dialogo fitto tra due individui che finalmente liberi, tutto si dicono e dove il padre come fiorito da un suo sé interno, lo ausculterà ed intenderà: «… / ...Sono qui, / mi dici poi. Rispondo: non è vero, / sei giù con gli altri, giù nel modo vero, / nel mondo bello, tocchi con la lingua / sul fondo del palato un mio capello». Quel padre che dentro la sua non lunga biografia, morirà difatti nel ’87, ha dovuto molto cambiare, con la stellina da marinaio a segnare sempre però il suo nord, la stellina dell’ortodossia militare a benedirlo già nei suoi primi anni di vita e poi a seguirlo nella guerra: «… / Non ricordi? La ricordo io per te, / quella stella cadente: nel ’20 / o ’22 sembrava rotolare / sulle sue cinque punte proprio fino a te, / all’alzo dei tuoi occhi. Era cucita / in fondo al solino dell’ordinanza / …», ecco ancora a illuminargli i valori fondativi della famiglia, del lavoro, dentro il boom economico; stellina che nel tempo sfuma in altra simbologia, si colora di anarchia a ricordare altro ordine di vita e appartenenza, altre latitudini da seguire. Infine «stellina nera tatuata sulla natica» di un corpo libero di profanare ed esser profanato, lontano dai principi dell’oscura morale religiosa.

Ma il libro sorprende per la capacità di saper evocare nella parte finale, anche altre figure e man mano che la figura del padre si rimpicciolisce nelle pagine, il poeta si ridisegna in altre lontane identità ma non per questo meno vive e presenti.

Ecco allora la pennellata-parola di Giartosio che non rinuncia in queste ultime pagine-interno a tratteggiare con nitore, la bellezza dei corpi come lui li chiama asimmetrici e per questo davvero vicini, dentro un paesaggio, una marina, una stanza; quei corpi posseduti da una fisicità erotica sempre compunta mai trasbordante, come cucita da una spiritualità dolente, che così si sfarina in certe istantanee fulminanti ma che testimonia di ritorno, lo sguardo consapevole sino in fondo della precarietà del nostro esserci: «… / Se rivedo risplendere il tuo corpo / nell’ombra del mio corpo, e mi rispecchio / in te per riconoscere me stesso, / prima che muoia mi sarà concesso / di rimediare in me brutto, in me vecchio, / te con bellezza, giovinezza, morte?».

Ecco in cosa dà prova Tommaso Giartosio nel libro e anche negli ultimi capitoli, Trovare e Perdersi: quanto conti coltivare tenacemente un’educazione sentimentale alla quale ogni vivente dovrebbe appunto educarsi ed essere educato, per vestire davvero di significato i nostri giorni altrimenti muti ed aridi per aridità di relazione.