Paura di evolvere

Il ritorno degli Imagine Dragons non riesce a nascondere gli effetti negativi di un successo troppo rapido
/ 28.08.2017
di Benedicta Froelich

In tempi dai ritmi frenetici e dissennati quali i nostri, anche l’industria discografica ha imparato ad eleggere e detronizzare i propri eroi con inquietante rapidità, al punto che, nel mondo della musica più commerciale, quella della cosiddetta «gavetta» sembra essere un’esperienza ormai praticamente estinta. Ne è un perfetto esempio la trionfale parabola della band statunitense degli Imagine Dragons, il cui esordio Night Visions (contenente, tra le altre, la hit On Top of the World), è datato appena 2012; e sebbene il nuovo CD Evolve costituisca soltanto la terza prova discografica del gruppo capitanato dal trentenne Dan Reynolds, l’immenso e immediato successo della formazione l’ha resa una realtà ormai consolidata nel panorama del rock targato USA – seppure in una nicchia palesemente riservata a un target molto giovane e dai gusti legati all’odierna cultura popolare di largo consumo, caratterizzata dalla dipendenza assoluta da smartphone, profili Facebook e sessioni di chat dai ritmi martellanti. Una cultura, quindi, dal carattere spesso «usa e getta», in cui gli idoli del momento vengono facilmente e rapidamente soppiantati da nuovi, effimeri modelli, e in cui band come quella degli Imagine Dragons devono muoversi cautamente, sforzandosi di mantenere il favore di un pubblico volubile.

Purtroppo, però, l’impressione generale all’ascolto di questo Evolve è che stavolta gli sforzi siano stati in parte vani, poiché, in verità, a latitare è proprio quella stessa «evoluzione» a cui il titolo accenna: infatti, se è vero che la musica degli Imagine Dragons è sempre stata di stampo dichiaratamente mainstream, indirizzata soprattutto al pubblico adolescenziale amante del pop-rock più easy listening e ballabile, è altrettanto vero che finora le canzoni della band sono comunque state ammantate di una certa introspezione e profondità, tali da innalzarle sopra il solito, casuale sound radiofonico per virare su versanti più meritevoli, sia dal punto di vista lirico che musicale. Tuttavia, il nuovo album non sembra riuscire a dirigere tali aneliti cantautorali in nessuna particolare direzione: nonostante gli interessanti esperimenti introspettivi che avevano pervaso buona parte del precedente Smoke + Mirrors (2015), Evolve sembra sospeso in una sorta di limbo creativo, incapace non solo di proseguire lungo il percorso intrapreso, ma anche di ricatturare la freschezza giovanile dell’esordio. Certo, l’eccessiva e subitanea popolarità è raramente foriera di capolavori: come diceva un grande scrittore e condottiero, «il successo fa sempre perire la speranza, per saturazione»; e purtroppo, questo è ciò che sembra essere accaduto a Reynolds e compagni.

E sì che Thunder, secondo singolo estratto dal CD, è un esempio da manuale di autentica efficacia radiofonica, nonché un successo garantito nella più pura tradizione e stile degli Imagine Dragons: e se si sorvola sull’altissimo quoziente di cafonaggine toccato dall’orripilante videoclip promozionale, non si può negare che il brano sia non soltanto orecchiabilissimo, ma anche sufficientemente elementare, in struttura e sonorità, da risultare irresistibile per qualunque teenager discotecaro che si rispetti. Lo stesso si può dire del grintoso Believer, sorta di inno rock dallo spirito inequivocabilmente urbano – e, in misura minore, dell’accattivante Whatever It Takes, dal classico sound dance a metà strada tra musica disco ed elettropop. Forse meno riuscito risulta invece Walking the Wire, il quale, sfortunatamente, si potrebbe definire quasi un autoplagio, dato che suona come il perfetto connubio tra due canzoni presenti in Night Visions (una che richiama da vicino l’inciso, e l’altra che ne replica il ritornello). Una sensazione di déjà vu che, del resto, si ritrova anche in un brano piuttosto innocuo e banale come Rise Up – il quale, per un gruppo giunto ormai al terzo album, appare, per molti versi, francamente risibile; anche se, da parte sua, nemmeno il blando I Don’t Know Why riesce a risollevare granché la situazione. Va meglio con Yesterday, il cui sound «à la Red Hot Chili Peppers» costituisce un gradevole diversivo, sebbene la forza di un ritornello semplice ma efficace non basti a farne un pezzo memorabile.

In sostanza, la sensazione è che la band stia scivolando sempre più sul risaputo, lavorando secondo parametri che probabilmente non convincono più del tutto neanche gli stessi membri del gruppo; come se uno strisciante, non dichiarato timore verso l’innovazione stilistica (da sempre la peggior paura che possa cogliere un musicista) stesse trattenendo gli Imagine Dragons dall’intraprendere nuovi percorsi, imprigionandoli in un cliché che inizia ormai a mostrare la corda. A questo punto, si può solo sperare che le pile di denaro finora accumulato smettano di obnubilare il senso compositivo di Reynolds e dei suoi per risvegliarne le coscienze davanti ai doveri che performer del loro livello hanno nei confronti del pubblico – e, soprattutto, della propria stessa arte.