Abbiamo incontrato Valeria Parrella, autrice italiana di romanzi tra cui Lo spazio bianco e L’enciclopedia della donna, entrambi editi da Einaudi. Le abbiamo chiesto di parlarci del suo ultimo romanzo Almarina (Einaudi, pp. 123, euro 17,00): la storia dell’incontro tra Elisabetta Maiorano, docente di matematica e la studentessa rumena Almarina. La cornice è il carcere minorile di Nisida, a Napoli, dove Almarina è detenuta. Tra le due si instaura una relazione che va ben oltre i confini previsti…Con Valeria abbiamo parlato di scrittura, di carceri e del senso di responsabilità su cui si dovrebbe fondare ogni scelta professionale.
In Almarina scrivi: «ci vuole un sacco di tempo o una poesia perfetta per dire davvero le cose come stanno». In questo romanzo il ritmo della tua scrittura si è contratto, è più denso, più prossimo all’andamento dei versi.Quando ho scritto quella frase stavo togliendo qualcosa allo stesso romanzo e tributando l’onore che merita alla poesia. Io lavoro alla prosa, alla scrittura, togliendo. A me interessa che la frase scritta abbia quel tono lì, però si tratta di cose che non mi pongo aprioristicamente, le so dopo. So che voglio scrivere di Nisida, di un incontro fra due donne. La storia è il timone: dà la direzione, ma lo scafo è la lingua.
«Beato quel paese che non ha bisogno di volontari» è una trasformazione davvero sagace della frase del Galileo di Brecht. Ti va di soffermarti sui pericoli della carità?Io non sopporto il volontariato, questa è la verità, eppure ne faccio tanto, perché è un male minore. Il volontariato non può essere strutturato, è troppo legato alla coscienza del singolo e questo dà un carattere di arbitrarietà inadatto a risolvere i problemi. Rispetto la costituzione e pago le tasse, che devono essere rimesse in circolo, andando a nutrire lo stato sociale che si deve occupare del benessere delle fasce più fragili. Poi, ci sono due aspetti tremendi del volontariato: uno è il rischio dell’esibizione, che alimenta la vanagloria, l’altro è la dipendenza, il fatto che la persona più fragile dipenda da qualcuno. Una mia amica malata di cancro mi diceva: «io mi sento ancora una persona perché vivo a Bologna, dove ci sono delle strutture in cui mi curano. Se avessi continuato a vivere a Napoli o a Roma, sarei dovuta dipendere da mio marito, da parenti».
La protagonista del tuo romanzo, Elisabetta Maiorano, è un’insegnante. Tu però hai scelto che lei lavorasse in un centro di detenzione minorile, perché?Io non ho scelto che la professoressa Maiorano insegnasse dentro Nisida, viene prima Nisida. Sono entrata a Nisida per quattro anni, per tre anni non è successo niente, nel senso che facevo il mio dovere, con altri scrittori, invitata da una professoressa di italiano: tenevamo un laboratorio di scrittura. Ci sono entrata poche volte ogni anno, però abbastanza per farmi un’idea di come si vivesse lì dentro. Io vado molto nelle carceri e ci penso sempre, anche dal punto di vista artistico.
Nella raccolta Troppa importanza all’amore c’è un racconto che si intitola 99/99/9999 che sarebbe la data del fine pena, mai. Credo che l’ergastolo sia equiparabile alla pena di morte. Ho le mie idee sulla detenzione. Mi spaventa? No e per questo entro spesso in carcere. E ogni volta che entro in carcere è come stare nelle ultime pagine di Resurrezione di Tolstoj, quando lui cammina, segue la colonia che va verso la Siberia ed entra in quei casermoni, in quelle aule dove ci sono i detenuti in vincoli e li guarda. Da quello sguardo non ci si può sottrarre.
Nisida è un carcere d’eccellenza, non ci sono le sbarre alle finestre a scuola, ci sono i campi di calcio, i ragazzi sono giovani e questo li rende bellissimi di per sé. Nisida nasconde, molto più degli altri carceri che ho visto, per questa sua bellezza e potenza naturale che deriva dal luogo in cui è situata – un vulcano spento – e dai ragazzi che la abitano.
Al quarto anno è successo che ho chiesto a un ragazzo di scrivere un tema, ma lui non cominciava, allora gli ho detto come doveva fare. Mi ha risposto che lo sapeva benissimo. Quando l’ho letto, ho pensato: che cretina! Pensavo che non sapesse da dove iniziare a scrivere e invece lui voleva scrivere l’inscrivibile e questo fatto è diventato importante per me. Più importante di qualsiasi altra storia avessi da raccontare, che è l’unico motivo per cui si scrive un libro piuttosto che un altro. È come se si fosse aperta una cosa e per chiuderla avevo bisogno di scriverci un libro. Quindi non è che Elisabetta insegni a Nisida: c’è Nisida e avevo bisogno di una persona che mi conducesse la storia e ho scelto un’insegnante.
Dentro e fuori da un carcere permane nell’insegnamento un aspetto di vocazione. Lo credi?
Credo che la vocazione non sia solo una caratteristica dell’insegnamento, ma possa esserlo per tutti i lavori. Esistono persone che fanno il proprio lavoro in maniera ispirata e altre che non lo fanno così. Ecco a me piacerebbe che i lavori fossero governati dalla responsabilità e non dalla vocazione.
Nell’esperienza di Elisabetta accade che la dedizione al suo lavoro si avvicini a un altro sentimento che tu definisci magnificamente: «l’amore delle madri senza merito, senza reciprocità e senza conquista». Non sarebbe meglio che le docenti di ogni ordine e grado fossero un po’ più zie che mamme, più simili al personaggio della collega di Elisabetta, Aurora?
Sì, Aurora è il mio personaggio preferito. A me piacciono i personaggi un po’ duri, poco permeabili. Odio le persone permeabili, mi insospettiscono, odio il modo di fare del sud che abbraccia continuamente, un po’ di distanza definisce meglio tutti: sé e gli altri, un po’ di distanza rappresenta la ragione, che non è opposta al cuore, al sentimento, ma lo regola. Elisabetta non è un personaggio pedagogicamente giusto, è tutta sbagliata! Solo in un momento lo è, nella parte che mi è costata più fatica: il primo incontro con Almarina. La ragazza si alza e Elisabetta pensa che assomigli a una scimmia. Mi sono odiata scrivendo questa cosa, ma ho dovuto resistere in questo sentimento di disprezzo. Nella pagina successiva Elisabetta vede Almarina giocare a pallavolo ed è bravissima e allora finalmente è costretta a riposizionarsi e dice: «se la romena vola, la scimmia era in me». Così come scrittrice mi salvo da questa cosa tremenda, perché c’è un’etica nella scrittura che a volte devi sfidare per ottenere una verità più profonda.
Bibliografia
Valeria Parrella, Almarina, Torino, Einaudi, 2019