Bibliografia
Enrico Testa, Bulgaro. Storia di una parola malfamata, Bologna, il Mulino, 2019.


Parole malfamate

La storia della parola «Bulgaro» e il destino di un popolo nell’ultimo libro dello storico della lingua Enrico Testa
/ 20.01.2020
di Stefano Vassere

All’interno della molto vivace collana «Parole nostre», che la casa editrice il Mulino va pubblicando da qualche anno affidando a singoli linguisti italiani di prim’ordine la trattazione di una parola-mondo dell’italianità storica (Ciao, Pizza, Bravo, per esempio), esce ora Bulgaro. Storia di una parola malfamata di Enrico Testa. Bulgaro abita espressioni di vario tipo; come quando si dice maggioranza bulgara, editto bulgaro, ma poi anche, in altri ambiti, pista bulgara, pasto bulgaro ecc. I significati di questi usi sono, come gli usi stessi, variabili e con variabili significati; ma ciò che li accomuna è il valore puntualmente sminuente delle espressioni.

Non si tratta in effetti di veri e propri insulti; non a caso (forse lo dice anche Testa in un qualche punto del suo libro) l’uso è quasi sempre aggettivale e di regola mai queste qualifiche assumono la forma del sostantivo: in pratica, questa fraseologia è più obliqua e meno illocutiva di un’ingiuria. Il problema sta nel contesto che viene montato, nel risuonare socioculturale. La storica bulgara Maria Todorova allude appropriatamente a «una malerba linguistica» (lei parla dei Balcani tutti insieme e del lessico associato all’etnonimo, ma nel libro di Testa le affinità con l’uso della famiglia lessicale legata a Balcani sono spiegate per bene).

Il riferimento alla Bulgaria e ai suoi abitanti è fucina lessicale importante per l’italiano, se è vero (come sembra) che da quella fabbrica derivino per esempio il toponimo carducciano Bolgheri, ma anche un termine come buggerare che significa «fregare», «raggirare», e pure «sodomizzare». Si potrebbe poi dire anzi che il rinvio a quell’area geografica e al suo contesto sociale sia prerogativa dell’italiano («locuzioni simili paiono assenti in altre lingue») e che la ricerca vada indirizzata non solo nel contesto delle connotazioni legate al blocco sovietico e alla sua storia ma pure a vicende molto più antiche, come testimonierebbe tra l’altro l’età degli stessi due termini qui appena richiamati. Del resto, recita bene Testa, a fronte di un uso così ancora vivo, «i regimi comunisti dell’Est sono finiti da un pezzo» e nessuno ci ha ancora spiegato perché in simili espressioni si scelga puntualmente di richiamare la sola Bulgaria e non un’altra delle realtà nazionali di quell’area geopolitica, l’Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia, la stessa Russia.

Il racconto delle origini e dei destini delle espressioni che contengono l’aggettivo bulgaro ci insegna un paio di cose molto generali sulla storia dell’italiano e sulla storia delle lingue. Se, come ci dice Enrico Testa, «i segni linguistici non si spiegano da soli e la lingua non può essere considerata “come sistema a sé stante”», l’influenza tra lingua e cultura va considerata nella sua reciprocità: pregiudizi e stereotipi avranno sì contribuito ad accreditare l’uso di bulgaro come lo conosciamo bene oggi, ma anche, all’inverso, il ricorso insistito a queste espressioni avrà indotto qualche anima semplice a sviluppare un’idea almeno ingenerosa della Bulgaria e dei Bulgari. Siamo dalle parti di quella che gli esperti chiamano «teoria del determinismo linguistico», che ebbe fortunato corso durante il Novecento e il cui imperatore supremo fu il linguista americano Benjamin Lee Whorf.

Potrà forse stupire infine il cocciuto radicamento storico (e sociale: l’uso di bulgaro sembra non conoscere confini sociali e «intellettuali») di questo vocabolario così poco rispettoso. Ma qui ammonisce Claude Lévi-Strauss e con lui lo stesso Enrico Testa: «una società è sempre soggetta alla incidenza di altre società e di stati anteriori del proprio sviluppo e su una società e sulle forme delle sue rappresentazioni collettive si fanno sentire anche fasi precedenti del proprio sviluppo ed elementi remoti della propria storia».