Il primo Pardo d'onore al regista Todd Heynes

Nel 1991 Poison, film in tre storie di violenza e sesso che contribuì anche a stabilire un nuovo modo di rappresentazione dell’omosessualità al cinema e nella società, rivelò il talento dell’esordiente Todd Haynes al pubblico e agli addetti ai lavori del Locarno Festival. Sei lungometraggi dopo, e la serie Mildred Pierce e vari lavori da produttore (soprattutto per Kelly Reichardt), il regista californiano ritira stasera in Piazza Grande il Pardo d’onore, il più prestigioso dei premi alla carriera locarnesi. Il primo dei due assegnati in questa 70esima edizione; l’altro andrà a Jean-Marie Straub venerdì sera, alla vigilia della conclusione e della premiazione. Del regista di I’m not there e Carol sarà presentato, oggi alle 16.15 al PalaCinema, il recentissimo Wonderstruck, tratto dal libro di Brian Selznick, lo scrittore di Hugo Cabret. Una favola in due tempi, una nel 1927 e una nel 1977, che finiscono con l’incontrarsi nel Museo di storia naturale di New York, presentata in concorso al recente Festival di Cannes, dove non ha riscontrato molti consensi. Un omaggio al cinema muto e a New York, che fatica a decollare, ma nell’ultima parte scatta la magia, con Julianne Moore in due piccoli ruoli magnifici, la danza tra i plastici e i più teneri dialoghi tra sordi che si possano immaginare.

Haynes segue altri celebri nomi, da Natassja Kinski ad Adrien Brody, che hanno già arricchito la manifestazione. Tra questi anche Fanny Ardant, attrice mito, vera mattatrice di Lola Mater di Nadir Moknéche, uno dei più convincenti lavori presentati in Piazza Grande. La Ardant è Lola, una danzatrice del ventre che riceve la visita inattesa del figlio Zinedine, abbandonato molti anni prima. La protagonista non è però sua madre, bensì il padre: il giovane faticherà ad accettare la verità. In una commedia drammatica di equivoci e senza grandi impennate, l’attrice è una regina della scena, trans esuberante e insieme tormentata, credibile e non cade mai nella macchietta.

Meno convincente il film d’apertura, Demain et tous les autre jours di Noemie Lvovski, non banale commedia tra realismo e favola cupa, che però non funziona del tutto nel conciliare i due registri. Molto brava la piccola protagonista Luce Rodriguez, nei panni di Mathilde di nove anni, che vive da sola con una madre inadeguata e si rifugia in un mondo di fantasia, insufficiente a incanalare la sua rabbia e la sua solitudine.

Meritano un cenno il tedesco Drei Zinnen con Berenice Bejo, ambientato sulle Dolomiti, con un bambino che fatica ad accettare il nuovo compagno della madre, e l’azione d’autore, mix di adrenalina e ironia di Good Time di Bennie e Josh Safdie, con Robert Pattinson efficace rapinatore in fuga rocambolesca.

Tra i primi film del concorso spicca Freiheit di Jan Speckenbach: Nora lascia marito e figli a Berlino per cercare una difficile libertà a Bratislava. Meno convincenti il gelido dramma Winter Brothers dell’islandese Hlynur Palmason, che eccede in ricerca di stile, e Ta peau si lisse del canadese Denis Coté, documentario sui culturisti che lascia un po’ distaccati.

Debutta oggi nella Semaine de la critique dedicata ai documentari The Family / Družina dell’emergente sloveno Rok Biček rivelatosi con Class Enemy nel 2013. Il giovane Matej è seguito per dieci anni da figlio di una famiglia problematica a padre a sua volta in lotta con l’ex compagna per la custodia del bambino. Una vicenda di scelte spiazzanti che sembra scritta dai fratelli Dardenne e filmata in lunghi pianisequenza da un autore del nuovo cinema romeno.


Pantere e leopardi

Il maculato simbolo della manifestazione omaggiato attraverso le opere di un regista maestro della rappresentazione cinematografica del soprannaturale.
/ 07.08.2017
di Nicola Falcinella

Il Festival del cinema che ha per emblema il Pardo non poteva non arrivare, prima o poi, a dedicare una retrospettiva completa al regista di «Il bacio della pantera» e, soprattutto «L’uomo leopardo». È l’americano d’origine francese Jacques Tourneur, figlio del grande regista del muto Maurice, al fianco del quale visse la giovinezza negli Stati Uniti e mosse i primi passi nel mondo del cinema. Nato nel 1904, Jacques esordì dietro la macchina da presa nel 1931 con «Tout ça ne vaut pas l’amour» durante una parentesi europea, iniziando una carriera che si sarebbe conclusa nel 1965, con il ritorno in patria e il ritiro a Bergerac, semidimenticato, dove morì nel 1977.

Quarant’anni dopo si torna doverosamente a investigare e guardare con attenzione l’opera di un autore sempre riconosciuto come grande professionista, capace di affrontare quasi tutti i generi principali, ma defilato e schivo e mai celebrato come si converrebbe, tanto che il suo nome oggi suona nuovo alla maggior parte delle persone. Ben altro effetto hanno sugli spettatori i titoli di suoi lavori come Il bacio della pantera (1942) o Ho camminato con uno zombi (1943), uno dei primi film con zombi nel titolo, dopo L’isola degli zombi (1932) con Bela Lugosi, quando George Romero ancora non aveva dato al termine l’accezione di morti viventi. La ricca ed eclettica filmografia fa di Tourneur un cineasta da scoprire e capace di sorprendere, un vero genio spesso dimenticato, in grado di lasciare un segno nell’epoca d’oro di Hollywood, ampliando e ridefinendo i confini dell’horror e del fantastico a inizio anni ’40 con i tre lungometraggi sopra menzionati. Opere frutto dell’incontro con il produttore Val Lewton della RKO, all’epoca una delle Big Five, che aveva sotto contratto Ginger Rogers e Fred Astaire e produsse i primi film di Orson Welles. Il regista dopo i primi quattro film in patria, una sorta di apprendistato, tornò a lavorare oltreoceano, scelta compiuta in quegli anni da molti cineasti europei mossi da motivazioni politiche e artistiche. Tra loro Fritz Lang e Alfred Hitchcock, due grandi con i quali ebbe più di un’affinità nel raccontare i mali profondi e inconsci della società, l’irrazionalità che prende il sopravvento. L’uomo leopardo racconta di uno dei primi omicidi seriali, sulla scia del fondamentale M – Il mostro di Dusseldorf di Lang, mentre come il cineasta inglese, anche Tourneur, rivoca la sessualità repressa, ma evidente, in cui la seduzione e la bellezza costituiscono un pericolo talvolta mortale, come nella trilogia con la RKO, e non solo.

Egli credeva nel soprannaturale, sapeva trattarlo e tradurlo in immagini quasi senza mostrare niente, una pulizia nel racconto derivante da una grande conoscenza e possesso degli strumenti linguistici del cinema, capace di evocare emozioni attraverso dissolvenze, montaggio (con stacchi anche azzardati), suggestioni, sonoro e ombre.

La sua carriera dura poco più di trent’anni, durante i quali si è cimentato con quasi tutti i generi, il noir (Out Of The Past o L’alibi sotto la neve – Nightfall), lo spionistico (Il treno ferma a Berlino), il western (Stars In My Crown) o il melodramma (Experiment Perilous), per il quale aveva una sensibilità particolare che portava tocchi melò in molti lavori. Girò anche in Italia il peplum La battaglia di Maratona (1959) con Steve Reeves nel ruolo di Filippide, con la regia congiunta di Bruno Vailati e Mario Bava.

Aveva debuttato dirigendo un interprete mitico come Jean Gabin e ha diretto parecchie star come Robert Mitchum (superbo in Out Of The Past con Kirk Douglas), Burt Lancaster (The Flame And The Arrow) Anne Bancroft (L’alibi sotto la neve), Boris Karloff e Vincent Price (The Comedy Of Terrors) e altri, ma il suo cinema aveva bisogno più di attori giusti che di nomi altisonanti. La recitazione che chiedeva era sotto tono, a basso tono, in apparenza inespressiva e uno dei suoi interpreti feticci era Dana Andrews (perfetto in La notte del demonio).

Tourneur era regista di atmosfere, di notti davvero tetre e paurose, che fossero ai Caraibi, nel West, in Inghilterra, a New York o in guerra. Usava miti, credenze e superstizioni locali (San Sebastian è Haiti con i riti voodoo in Ho camminato con uno zombi), l’esotico e il folkloristico, in maniera sempre appropriata e coerente. Spesso nei suoi film pone il dilemma tra credere alla stregoneria e al soprannaturale o non credere. E lo scontro tra razionale e irrazionale è spesso vinto dal secondo.

Il Festival propone 33 opere del regista, più i cortometraggi, e la retrospettiva sarà portata alla Cineteca di Losanna dal 23 agosto. Nel programma locarnese c’è anche il remake de Il bacio della pantera firmato da Paul Schrader nel 1981, inserito nell’omaggio a Nastassja Kinski.