Il Festival del cinema che ha per emblema il Pardo non poteva non arrivare, prima o poi, a dedicare una retrospettiva completa al regista di «Il bacio della pantera» e, soprattutto «L’uomo leopardo». È l’americano d’origine francese Jacques Tourneur, figlio del grande regista del muto Maurice, al fianco del quale visse la giovinezza negli Stati Uniti e mosse i primi passi nel mondo del cinema. Nato nel 1904, Jacques esordì dietro la macchina da presa nel 1931 con «Tout ça ne vaut pas l’amour» durante una parentesi europea, iniziando una carriera che si sarebbe conclusa nel 1965, con il ritorno in patria e il ritiro a Bergerac, semidimenticato, dove morì nel 1977.
Quarant’anni dopo si torna doverosamente a investigare e guardare con attenzione l’opera di un autore sempre riconosciuto come grande professionista, capace di affrontare quasi tutti i generi principali, ma defilato e schivo e mai celebrato come si converrebbe, tanto che il suo nome oggi suona nuovo alla maggior parte delle persone. Ben altro effetto hanno sugli spettatori i titoli di suoi lavori come Il bacio della pantera (1942) o Ho camminato con uno zombi (1943), uno dei primi film con zombi nel titolo, dopo L’isola degli zombi (1932) con Bela Lugosi, quando George Romero ancora non aveva dato al termine l’accezione di morti viventi. La ricca ed eclettica filmografia fa di Tourneur un cineasta da scoprire e capace di sorprendere, un vero genio spesso dimenticato, in grado di lasciare un segno nell’epoca d’oro di Hollywood, ampliando e ridefinendo i confini dell’horror e del fantastico a inizio anni ’40 con i tre lungometraggi sopra menzionati. Opere frutto dell’incontro con il produttore Val Lewton della RKO, all’epoca una delle Big Five, che aveva sotto contratto Ginger Rogers e Fred Astaire e produsse i primi film di Orson Welles. Il regista dopo i primi quattro film in patria, una sorta di apprendistato, tornò a lavorare oltreoceano, scelta compiuta in quegli anni da molti cineasti europei mossi da motivazioni politiche e artistiche. Tra loro Fritz Lang e Alfred Hitchcock, due grandi con i quali ebbe più di un’affinità nel raccontare i mali profondi e inconsci della società, l’irrazionalità che prende il sopravvento. L’uomo leopardo racconta di uno dei primi omicidi seriali, sulla scia del fondamentale M – Il mostro di Dusseldorf di Lang, mentre come il cineasta inglese, anche Tourneur, rivoca la sessualità repressa, ma evidente, in cui la seduzione e la bellezza costituiscono un pericolo talvolta mortale, come nella trilogia con la RKO, e non solo.
Egli credeva nel soprannaturale, sapeva trattarlo e tradurlo in immagini quasi senza mostrare niente, una pulizia nel racconto derivante da una grande conoscenza e possesso degli strumenti linguistici del cinema, capace di evocare emozioni attraverso dissolvenze, montaggio (con stacchi anche azzardati), suggestioni, sonoro e ombre.
La sua carriera dura poco più di trent’anni, durante i quali si è cimentato con quasi tutti i generi, il noir (Out Of The Past o L’alibi sotto la neve – Nightfall), lo spionistico (Il treno ferma a Berlino), il western (Stars In My Crown) o il melodramma (Experiment Perilous), per il quale aveva una sensibilità particolare che portava tocchi melò in molti lavori. Girò anche in Italia il peplum La battaglia di Maratona (1959) con Steve Reeves nel ruolo di Filippide, con la regia congiunta di Bruno Vailati e Mario Bava.
Aveva debuttato dirigendo un interprete mitico come Jean Gabin e ha diretto parecchie star come Robert Mitchum (superbo in Out Of The Past con Kirk Douglas), Burt Lancaster (The Flame And The Arrow) Anne Bancroft (L’alibi sotto la neve), Boris Karloff e Vincent Price (The Comedy Of Terrors) e altri, ma il suo cinema aveva bisogno più di attori giusti che di nomi altisonanti. La recitazione che chiedeva era sotto tono, a basso tono, in apparenza inespressiva e uno dei suoi interpreti feticci era Dana Andrews (perfetto in La notte del demonio).
Tourneur era regista di atmosfere, di notti davvero tetre e paurose, che fossero ai Caraibi, nel West, in Inghilterra, a New York o in guerra. Usava miti, credenze e superstizioni locali (San Sebastian è Haiti con i riti voodoo in Ho camminato con uno zombi), l’esotico e il folkloristico, in maniera sempre appropriata e coerente. Spesso nei suoi film pone il dilemma tra credere alla stregoneria e al soprannaturale o non credere. E lo scontro tra razionale e irrazionale è spesso vinto dal secondo.
Il Festival propone 33 opere del regista, più i cortometraggi, e la retrospettiva sarà portata alla Cineteca di Losanna dal 23 agosto. Nel programma locarnese c’è anche il remake de Il bacio della pantera firmato da Paul Schrader nel 1981, inserito nell’omaggio a Nastassja Kinski.