Siamo tutti scrittori, siamo tutti poeti, a giudicare dalla mole di libri pubblicati ogni anno, al ritmo di una catena di montaggio. Anzi, oggi è più facile: se non trovi un editore, fai da te e prova a sguazzare nel mare magnum di internet. Qual è la percentuale di chi potrà dire «ce l’ho fatta!», chi sarà ricordato fra dieci anni? E fra duecento? Pochissimi eletti entrano nell’Olimpo dei Grandi. Eppure forse non è solo questo il nocciolo del dibattito.
Oggi, due secoli dopo quella passeggiata sul Monte Tabor, «l’ermo colle» che da allora celebra Recanati in tutto il mondo letterario, si ricorda quell’Infinito con cui Giacomo Leopardi schiuse la sua immaginazione, lasciandola libera. Lui, Leopardi, riusciva dalla sua stanza nella casa paterna a fissare con l’aiuto di carta e penna il suo pensiero, la sua angoscia così come la sua gioia più pura. Beato lui, con tutto il rispetto che si deve al «poeta italiano più amato nel mondo». Ma proprio di quell’immaginazione tutti noi siamo dotati, anche se spesso vive come un uccellino in una gabbia aperta.
Oggi, quel capolavoro del 1819 viene celebrato in mille modi. Perfino con adunate (li chiamiamo «flash mob») di studenti che recitano in coro l’idillio al grido di battaglia (lo chiamiamo «hashtag») #200infinito; con la recita nella lingua dei segni a Palazzo Madama sede del Senato italiano; con un occhio perenne (lo chiamiamo «webcam») nell’orto-giardino dell’ex Convento di Santo Stefano che mostra in diretta al mondo il panorama dal colle, quello che la siepe precludeva allo sguardo del poeta. «Ohibò, che son codeste diavolerie, codesto bizzarro arnese?!», si chiederebbe oggi Leopardi, sgranando gli occhi: nemmeno la sua celebrata immaginazione sarebbe arrivata tanto in là.
Sul «Corriere della Sera», Emanuele Trevi scriveva recentemente di vedere in Leopardi «una specie di santo», il colle e la siepe come «l’elemento vitale di questo culto»: «e se non è sacra questa siepe», rifletteva Trevi, «cos’altro possiamo considerare sacro?» Leopardi è santo per aver compiuto il miracolo: «in luogo della vista», scriveva nello Zibaldone, «sorge l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale».
È questa la chiave di volta: l’immaginazione. Che per ognuno di noi cerca, affannosamente, la sua forma di espressione ideale. Guardiamo dal basso agli intoccabili come Leopardi, celebriamoli. E seguiamoli, imitiamoli (proviamoci, su…), perché il dono dell’immaginazione viene consegnato a ogni essere umano. Siamo tutti scrittori, si diceva. Che meravigliosa bugia. Eppure se guardiamo ai milioni di testi composti ogni giorno – nell’era in cui i pessimisti ci vedono tutti pilotati da algoritmi – si direbbe che all’essere umano piace ancora e sempre coltivare la capacità di rendere concreta l’immaginazione, grazie all’altro dono, la parola.
Forza, allora. Scrivere, scrivere, scrivere. Non è così importante arrivare alla meta ed espugnare la fortezza dell’editoria. È importante invece tenere la mente in movimento, dare ossigeno alle sue suggestioni, quelle nascoste allo sguardo ma sempre pronte a balzar fuori se solo apriamo quella scatola. E il naufragar sarà dolce in questo mare.