Londra, 18 febbraio 1895. John Sholto Douglas, ottavo marchese di Queensberry, arriva all’Albemarle Club e chiede di Oscar Wilde. Vuole incontrarlo per intimargli – lo ha già fatto in altra occasione – di porre fine al chiacchierato sodalizio col suo terzogenito, il ventiquattrenne e bellissimo Alfred Bruce Douglas, a cui Wilde è legato da quasi quattro anni. Quando gli viene detto che lo scrittore non è presente, Queensberry scrive su un biglietto da visita «To Oscar Wilde posing as somdomite», «A Oscar Wilde che posa da somdomita» (l’errore ortografico è probabilmente dovuto al nervosismo) e lo consegna al portiere, il quale – dopo che altri ne hanno quasi certamente preso visione o avuto notizia – lo infila in una busta con sopra scritta l’ora in cui l’ha ricevuto: 16,30. Wilde lo leggerà dieci giorni dopo. Sordo alle parole di alcuni amici e conoscenti (fra cui il commediografo G.B. Shaw), che gli sconsigliano di imboccare la via giudiziaria, dà invece ascolto al giovane Alfred Douglas, smanioso di danneggiare l’odiato e odioso genitore, e querela il marchese per diffamazione.
Una decisione rovinosa. Conclusosi con l’assoluzione di Queensberry (che in sede dibattimentale dichiara di aver agito in nome del bene comune), il processo dà origine a un’azione della Corona contro Wilde, da cui scaturisce un ulteriore processo, che termina con una condanna per sodomia a due anni di carcere e ai lavori forzati. Nel giudizio dei posteri, la risonanza internazionale del caso e l’atteggiamento punitivo assunto da Queensberry, dai rappresentanti della Corona, dagli avvocati, dall’opinione pubblica, dalla stampa, e financo dalle prostitute londinesi, che nello scrittore e nei suoi prostituti vedevano dei concorrenti, hanno fatto e fanno di Oscar Wilde un illustre capro espiatorio, una vittima esemplare del puritanesimo e dell’ipocrisia vittoriana. Dalle vicende giudiziarie e dall’esperienza carceraria, che lo misero a durissima prova nel corpo e nello spirito, e dalle quali uscì socialmente ed economicamente distrutto, Wilde trasse la forza per scrivere – dopo la scarcerazione – una delle sue opere più belle: La ballata del carcere di Reading.
Nel comporre un’opera teatrale dedicata ai tre processi, il drammaturgo statunitense di origine venezuelana Moises Kaufman dice di essersi ispirato alle tecniche usate da Piscator e dal giovane Brecht. «Gli attori», scrive in una nota premessa al testo, «dovrebbero interpretare i personaggi senza “sparire” nelle parti». Con la sola eccezione di quello a cui viene assegnato il ruolo di Oscar Wilde, gli attori avranno il compito di interpretare vari personaggi e dare corpo e voce a quattro «narratori», che interverranno con tono di voce impersonale nel corso dei dibattimenti. Atti osceni è un abile montaggio di materiali diversi: verbali degli interrogatori, frasi estrapolate dai giornali dell’epoca, citazioni da opere di Wilde e da libri di memorie, tra cui quelli scritti da Lord Alfred Douglas molti anni dopo la morte dell’artista. (Quanto al giudizio espresso da Tony Kushner, secondo cui Atti osceni raggiunge una dimensione shakespeariana, sono veramente grato all’autore di Angels in America di avermi procurato due minuti di fou rire).
Di grande sobrietà, la scenografia dello spettacolo firmato da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia finge un’aula di tribunale dove gli elementi di maggior rilievo sono delle sbarre mobili, frequentemente e agevolmente spostate dagli attori, e un pannello di fondo, alto e stretto, su cui vengono proiettate delle immagini (ritratti fotografici di Wilde, particolari di quadri e illustrazioni, disegni di carte da parati e di tessuti) che in prevalenza richiamano il movimento preraffaellita. Il pregio maggiore della messinscena, a mio parere, è nel ritmo serrato e fluido dell’azione. Qualche perplessità la suscitano invece l’impostazione e l’interpretazione di alcuni personaggi. A cominciare dall’Oscar Wilde di Giovanni Franzoni, che fa il suo ingresso mettendo un piede davanti all’altro alla maniera delle indossatrici in passerella (è una camminata dandistico-estetizzante come la immaginano Bruni e Frongia?). Più grave è che il suo abbigliamento e la sua interpretazione non diano la possibilità di farsi un’idea, sia pure approssimativa, dell’eleganza esteriore e dello straordinario fascino personale – che nel secondo e terzo processo venne riducendosi fino al balbettio – di un artista che era un idolo dei salotti londinesi e parigini. Altrettanto difficile, sempre a mio giudizio, è vedere un giovane di «venustà floreale» – sono parole di G.B. Shaw – nell’Alfred Douglas di Riccardo Buffonini, che del capriccioso aristocratico sa però restituirci, di quando in quando, i tratti isterici. Ed è un vero peccato che il bravo Ciro Masella sia stato forzato a dare un’interpretazione disonestamente caricaturale di Queensberry e dell’avvocato Carson, difensore del marchese. Disonesto, infine, mi è sembrato anche l’uso astutamente enfatizzante delle musiche.