La sede originale del Museum für Gestaltung di Zurigo riaprirà nel marzo 2018, dopo una pausa necessaria alla realizzazione di alcuni interventi di restauro. L’istituzione ha nel frattempo potuto contare sulla nuova sede, ubicata presso il Toni Areal, dove sono situati, oltre ad uno spazio espositivo, anche i depositi, per altro visitabili. In questa intervista, il direttore Christian Brändle racconta ai lettori di «Azione» il percorso che l’istituzione ha fino ad ora intrapreso, le mostre in corso e i progetti per il futuro.
L’edificio del Museum für Gestaltung, che si affaccia su Ausstellungstrasse, realizzato dagli architetti Steger ed Egender in stile Bauhaus, ha subìto un importante intervento di restauro. Come vi siete confrontati con un’opera di tale importanza nella storia dell’architettura svizzera?Si tratta in effetti di un edificio molto importante, costruito negli anni Trenta, un vero monumento iconico nel panorama dell’architettura svizzera modernista. Nel nostro paese sono pochissimi gli edifici realizzati in quel decennio che abbiano dimensioni altrettanto importanti. Forse, di paragonabile, c’è solo la Biblioteca Nazionale a Berna. L’edificio di Zurigo ha avuto la fortuna di essere sempre stato utilizzato come scuola. Infatti, come forse è noto, il museo è parte della Zürcher Hochschule der Künste (ZHdK).
Poiché si trattava di un edificio scolastico, le risorse economiche a disposizione sono sempre state molto limitate e non ci sono mai stati grandi investimenti, per distruggere e ricostruire. Solitamente, negli anni Ottanta, questo genere di costruzioni veniva invece abbattuto, oppure si rifacevano completamente alcune parti. Nel nostro caso moltissimi elementi originali sono ancora intatti. Questa è stata per noi una grande occasione. Perciò, nel corso del restauro, abbiamo tenuto presente due obiettivi: in primo luogo, creare un museo che rispetti gli standard odierni in termini di controllo del clima, sicurezza, eccetera; sull’altro fronte, volevamo rispettare il più possibile questo splendido edificio storico. Questo sforzo è arrivato al punto tale che abbiamo fatto ricerche anche per trovare le viti giuste da usare, come quelle originali, oggi non più in produzione. Ci siamo spinti fino al più piccolo dettaglio, tanto che ora, in ogni angolo, si può veramente respirare la dignità originale di questo edificio.
Nel frattempo, avete anche una nuova sede al Toni Areal, un deposito visitabile, una formula sempre più diffusa negli ultimi anni. Come sono utilizzati questi nuovi spazi?
La sede presso il Toni Areal è suddivisa in due parti: c’è il deposito, dove conserviamo i circa 500’000 oggetti della nostra collezione, che è composta soprattutto da poster, ma anche da mobili, oggetti, opere di graphic design; poi ci sono le superfici espositive al piano principale. Nell’edificio su Ausstellungsstrasse, a restauro concluso, saremo in grado, per la prima volta nella nostra storia, di allestire una parte delle nostre collezioni. Qui vedrete circa duemila oggetti dalla nostra collezione: si tratterà probabilmente dei pezzi più importanti, esposti in allestimenti rinnovati regolarmente.
Per quanto riguarda lo «Schaudepot» presso il Toni Areal, stiamo discutendo proprio in questi giorni su come renderlo accessibile al pubblico nel migliore dei modi. Attualmente offriamo quasi ogni giorno una visita guidata. Non è accessibile liberamente, i visitatori vanno accompagnati. Ora stiamo valutando se rendere la visita più libera o se continuare con la modalità attuale. Probabilmente in futuro avremo in entrambe le sedi una combinazione fra collezione permanente e mostre temporanee, poiché entrambe i luoghi hanno bisogno costantemente di nuova linfa vitale. Inoltre, a partire dal 2019, avremo anche in gestione il Padiglione Le Corbusier, a Seefeld.
Quando riaprirete la sede storica?
Nel marzo 2018: mancano pochi mesi, anche se abbiamo ancora molto lavoro da fare.
Il legame che vi unisce alla Zürcher Hochschule der Künste è di lunga data, ma credo che sia ancora molto attuale.
Sì, si tratta di una relazione molto forte. Se si guarda indietro nella storia, si vede che quasi sempre i musei e le scuole d’arte hanno radici comuni. In Europa queste radici vanno indietro fino agli anni Sessanta dell’Ottocento, il tempo dell’Eclettismo e dello Storicismo, quando architetti e designer cercavano nell’archivio della storia per trovare spunti da copiare e ai quali ispirarsi. Il risultato fu uno stile molto bizzarro, che spesso nasceva mischiando elementi da varie epoche.
A Zurigo fu realizzato proprio allora il Landesmuseum (Museo nazionale, ndr), che da fuori sembra un castello medievale, mentre in realtà fu uno dei primi edifici costruiti in cemento. Si trattava di un vero e proprio falso, come un castello in stile Disneyland. Alla fine furono necessari dei nuovi modelli a cui riferirsi, soprattutto per istruire studenti ed apprendisti. Fu allora che, in molti luoghi d’Europa, si cominciarono le collezioni di arti applicate e di grafica. Piuttosto velocemente vennero fondati veri e propri musei e scuole in tutta Europa. In seguito, musei e scuole prima uniti, si sarebbero divisi: accadde a Londra, con il Victoria and Albert Museum e il Royal College of Arts, lo stesso avvenne a Monaco. Ma non fu così a Zurigo, dove il museo è ancora parte della ZHdK.
Questa situazione influenza molto il modo in cui ci occupiamo di design qui al museo: siamo molto interessati a raccogliere esempi sulla genesi del progetto, sul processo che parte dal primissimo schizzo a matita, per arrivare al prototipo, alla produzione industriale, fino al momento in cui l’oggetto finisce nella spazzatura. Ci interessano anche gli strumenti che servono per la produzione e la storia del marketing dei prodotti creati, dagli opuscoli ai poster. Tutto il ciclo vitale dell’oggetto. Crediamo che sia importante per i nostri studenti imparare in questo modo il design e riflettere sul processo creativo.
La mostra in corso Design Studio Prozesse sembra mostrare bene questa vostra modalità.
Esatto. Questo è l’esempio perfetto. È in corso fino a luglio 2018.
Ci può raccontare qualcosa sulle mostre che avete in corso in questo momento?
Come dicevamo, ora è visitabile Design Studio Prozesse che offre al pubblico la possibilità di comprendere la pratica del design così come viene svolta oggi, attraverso molti temi, discipline, approcci. Poi c’è l’altra mostra appena aperta, dedicata al designer austriaco di fama internazionale Stefan Sagmeister, che ha lavorato con Lou Reed, i Rolling Stones e molti altri personaggi celebri. La sua modalità creativa è molto interessante perché ogni sette anni chiude il suo studio per un anno, un anno sabbatico, sapendo che al suo ritorno avrà comunque clienti ad aspettarlo.
Nel corso di questo anno egli si dedica interamente alla riflessione su un singolo tema. L’ultima pausa è stata dedicata al tema della felicità, durante il quale ha creato il progetto chiamato «The Happy Show» – ora in mostra da noi – in cui lui ha ragionato come individuo, ma anche basandosi su studi scientifici, registrazioni video del comportamento di altre persone ed esperimenti con droghe provate su se stesso per capire cosa renda felici. Ne è nata una interessante esposizione, anche perché è un tema molto bello su cui lavorare. Inoltre è stato reso da lui in modo molto accattivante dal punto di vista visivo. Poi abbiamo chiesto a Sagmeister di proporre una selezione di oggetti dai nostri depositi.
È la seconda volta che lo facciamo: era già avvenuto con Jasper Morrison, industrial designer. Per noi si tratta di un momento molto importante, perché, quando lavoriamo con le nostre collezioni dal punto di vista strettamente scientifico, etichettiamo gli oggetti, li mettiamo in una certa categoria, gli diamo una determinata connotazione. Quando viene qualcuno da fuori ad occuparsene, invece, le collezioni ricevono una nuova lettura e quindi una nuova vita.