Il suo nome sta iniziando a circolare con frequenza sempre maggiore negli ambienti musicali. Col debutto sul prestigioso podio della London Symphony Orchestra i riflettori della grande ribalta si sono ormai accesi e nonostante sia solo agli esordi di una carriera intrapresa appena cinque anni fa c’è già chi lo indica come l’erede di Zubin Metha, il direttore indiano noto a tutti gli appassionati della classica ma anche al grande pubblico per aver diretto i mitici concerti dei Tre Tenori e varie volte il Concerto di Capodanno a Vienna.
E forse non è stato un caso che a inizio marzo debuttasse a Milano negli stessi giorni in cui Mehta dirigeva alla Scala la Sagra della primavera di Stravinskij; Alpesh Chauhan era impegnato con l’orchestra dei Pomeriggi Musicali al Dal Verme, il teatro che sorge a uno sguardo dal Castello Sforzesco; la sera prima del suo concerto è andato ad applaudire Mehta alla Scala, e questi il giorno dopo ha ricambiato la visita. Un’investitura, se non ancora un passaggio di consegne.
Chauhan è nato 26 anni fa a Birmingham da genitori indiani: «In realtà mio padre è nato in Tanzania e mia madre in Kenya, ma entrambe le loro famiglie sono indiane; come fossero arrivate lì non so proprio dirlo e loro non me l’hanno mai saputo spiegare; evidentemente così voleva il destino, che ha permesso a mamma e papà di incontrarsi a migliaia di chilometri di distanza dalla loro patria e poi di andare a vivere altre migliaia di chilometri più a nord». Il destino scelse una via piuttosto particolare per fargli incontrare la musica: «In casa nessuno suonava uno strumento e non c’era nessun disco di Mozart o Beethoven, ma vedevamo i film di Bollywood. La Hollywood indiana usa colonne sonore sinfoniche, di largo respiro, così pur non conoscendo Bach o Brahms avevo assoluta dimestichezza con i timbri di flauti e violini, trombe e violoncelli».
Chauhan si innamorò della musica, a otto anni iniziò a suonare il violoncello, ma quando volle trasformare la passione in professione la famiglia non nascose un certo malumore: «Dica pure una vibrata contrarietà. Non solo da parte dei miei genitori, ma anche di nonni e zii: per gli Chauhan la musica poteva essere solo un hobby. Per fortuna ero scarso in tutte le materie scolastiche, me la cavavo, ma neanche tanto, giusto in matematica, così diventava difficile pensare a un qualche percorso di studi, a un ipotetico futuro lavorativo. Il mio sogno era di fare il pilota, il bello di fare il musicista è che viaggio molto in aereo». Non aveva la stoffa del medico, dell’ingegnere, dell’avvocato, del commercialista, «l’unico ambito dove riuscivo, e piuttosto bene, rimaneva la musica, così alla fine si arresero e anzi dopo un po’ iniziarono addirittura a sostenermi».
Oggi sorride ricordando quei primi passi, quando fu ammesso nell’orchestra giovanile della City of Birmingham: «Era meraviglioso sentirsi avvolti dai suoni dell’orchestra, mi sentivo immerso in una dimensione fantastica. Eppure, prova dopo prova, concerto dopo concerto, sentivo crescere la curiosità verso quella persona che agitava le braccia sul podio e soprattutto verso la sua arte – per me allora oscura – che gli permetteva di farci suonare non come volevamo noi ma come pensava lui. Appena ci fu la possibilità di provarci non me la feci scappare». In quella masterclass venne notato subito e fu scelto come assistente di Andris Nelssons, direttore della formazione professionale della City of Birmingham.
Tutto questo accadeva cinque anni or sono. In questo lustro Alpesh ha bruciato le tappe, ora la sua agenda è sempre più fitta di impegni e la musica determina e scandisce le sue giornate. «La musica è sempre presente nella mia vita, anche fisicamente: quando viaggio ho sempre delle cuffie per ascoltare qualcosa; in casa ho delle casse in due camere, nel salotto e nello studio, così ovunque mi trovi posso ascoltare qualcosa».
E non si pensi che chi sia uscito da un Conservatorio debba necessariamente essere un conservatore, con i suoi 26 anni Chauhan è figlio del suo tempo: «Le casse non sono collegate a uno stereo ma collegabili allo smartphone o al laptop: iTunes o Spotify sono fonti fantastiche per scoprire brani ma soprattutto per confrontare interpretazioni differenti; talvolta anche youtube è comodo, lo considero un sussidiario per lo studio, soprattutto per le incisioni antiche».
La tecnologia non come fine e neppure come entertainment, ma come mezzo per camminare verso il cuore della musica: qui Alpesh svela il suo metodo di lavoro: «Quando devo affrontare un brano ascolto il maggior numero possibile di versioni, sento come i grandi del passato o del presente l’hanno eseguito; poi però, quando da queste suggestioni devo arrivare a una mia visione e quindi devo trovare delle mie soluzioni per rendere certi passaggi, mi rifugio nella cara, vecchia penna. I miei spartiti sono letteralmente ricoperti di segni rossi e blu: annoto, cerchio, sottolineo, poi cancello e riscrivo su quel poco di carta che è rimasta dopo il passaggio della gomma. E quando riprendo un brano dopo un po’ di tempo ricompro lo spartito e riparto da capo, ricominciando a tatuare i pentagrammi».
Ciò che colpisce i professori che si trovano davanti Chauhan è la serietà e la maturità che esibisce; sembra un piccolo Karajan, non perché abbia vezzi o pretese divistiche, ma per l’atteggiamento deciso e pieno di tensione: sa quel che vuole e come fare perché l’orchestra lo realizzi, quando serve sa anche essere severo. «Perché non metto mai sul leggìo uno spartito a caso: dirigo solo quello che sento mio, che mi trasmette qualcosa di profondo e che posso comunicare innanzitutto agli orchestrali e poi al pubblico. I gesti di chi sul podio non sente suo il brano eseguito sono solo una distrazione, un disturbo: rompono le scatole».