Critica dell’arte contemporanea. Moralismo insopportabile. Sconnesso e noioso. Lungo e senza trama. Non ho capito dove vuole andare a parare. Preferivo Force majeure, il suo film sulla valanga e il padre di famiglia che acchiappa lo smartphone per darsela a gambe, mentre la madre cerca di mettere in salvo i figli.
Sono i commenti ascoltati all’uscita di The Square, Palma d’oro a Cannes 2017. Dopo l’anteprima festivaliera e ora che il film si può vedere in sala. Il più articolato lo ha scritto Antonio Polito su «La Lettura» del «Corriere della Sera», domenica scorsa, offrendone una lettura sociale: parlerebbe del nostro rapporto con chi cerca aiuto.
Da tanto non si litigava su un film. Abituati ai social e poco all’argomentazione, se a me è piaciuto il tale film e a te il tale film non è piaciuto, di questi tempi sembra cortese lasciar cadere l’argomento. The Square ci ha svegliati dal letargo e dall’effetto Dunkirk: sembravamo tutti d’accordo sul capolavoro Christopher Nolan, quando il giapponese nella giungla Goffredo Fofi lo ha abbattuto a colpi di ideologia (noi però conosciamo adulti di gran cultura che in sala facevano ta-ta-tà in sincronia con lo spitfire pilotato da Tom Hardy).
Scritto e diretto dallo svedese Ruben Östlund, The Square non critica l’arte contemporanea. È vera satira, nel senso di Jonathan Swift: «Uno specchio rivolto verso di noi, in cui ognuno riconosce tutti tranne se stesso». L’arte contemporanea c’è – e non potrebbe non esserci – come cartina di tornasole. Il film parla del nostro atteggiamento di fronte all’arte, non solo contemporanea. E di fronte al cinema, ai romanzi, alle performance, al teatro, perfino alle serie.
La giornalista Elizabeth Moss – perfetta, era la segretaria diventata copywriter nella serie Mad Men, è la femmina da riproduzione nel Racconto dell’ancella di Margaret Atwood – interroga il direttore del Museo d’Arte Contemporanea leggendo qualche frase dal catalogo fresco di stampa. Lui sembra sentirla per la prima volta – già grave. E non riesce a spiegarle con parole sue, faccenda anche più grave.
Sosteneva Franca Valeri che la prefazione al catalogo non serve a spiegare l’opera, ma la vanità di chi firma il testo. Ricordiamolo, quando abbiamo davanti parole e sintassi incomprensibili, e invece di spennacchiare l’autore siamo sotto ricatto della «cultura». Vale per tutti gli illeggibili romanzi spacciati per avanguardia solo perché il protagonista è uno scrittore che non riesce a scrivere, o perché non ci sono personaggi riconoscibili, o perché la punteggiatura latita (Franca Valeri invece la punteggiatura la metteva benissimo, Arturo Toscanini ne consigliava i monologhi per imparare le pause). Vale per tutti i film dove non succede niente ma si muore di noia lo stesso. Peggio ancora quando cerchiamo una recensione a nostro conforto, trovando solo deliri&metafore&specificifilmici.
«Non c’era tempo per le discussioni: l’importante era arrivare per primi al buffet e via con gli applausi», scriveva Tommaso Labranca in Vraghinaroda (russo per «nemici del popolo»). Raccontava le mostre e dei curatori che applicano «il metodo posacenere»: quando vogliono umiliarti si guardano intorno e, ispirati da qualsiasi scritta, s’inventano il nome di un artista inesistente. (Potremmo chiamarlo «metodo Keyser Söze», se ancora si potesse alludere a Kevin Spacey senza rischiare le fiamme dell’inferno).
The Square mostra gli invitati al vernissage che sciamano verso il buffet – si immagina vegano, o almeno bio – mentre lo chef superstellato illustra i bocconcini, capiamo che ne ha per una mezzoretta. Siamo noi, i satireggiati. Ma non chi punta al buffet. Chi ha dato ai cuochi l’alloro da artisti, e consente loro di destrutturare i cibi sui menu (a chi importa se i tre piselli di contorno vengono dall’orto del signor Carlo?) e nei piatti rigorosamente quadrati, con lo sbaffo di balsamico – ora riprodotto anche dalla trattoria sotto casa.
The Square è un quadrato luminoso sul piazzale, «luogo di fiducia e carità dove tutti abbiamo gli stessi diritti e doveri». Ma bisogna vedere come reagisce il direttore del Museo, appena gli rubano lo smartphone: isteria, caccia al colpevole – lo trova in un ragazzino più scuro dello svedese medio – e voglia di farsi giustizia da sé. È solo l’inizio: con questo piglio e questa lucidità, Ruben Östlund racconta gli uomini e le donne (comprese le molestie). Racconta l’idea cretina che subito diventa virale e fa danni. Racconta i riflessi scimmieschi che ancora conserviamo.