Nijinsky, una follia piena d’amore

A cent’anni dall’ultima esibizione del «più grande ballerino di tutti i tempi», il ricordo di Vaslav Nijinsky e del suo forte legame con la Svizzera è più vivo che mai
/ 09.12.2019
di Benedicta Froelich

Benché soltanto i cosiddetti «ballettomani» ne siano a conoscenza, fu proprio su suolo elvetico che, esattamente un secolo fa, nel 1919, l’appena trentenne Vaslav Nijinsky – secondo molti il più grande ballerino di sempre, primo precursore della danza odierna – uscì di scena in modo inaspettato, ponendo fine a una carriera durata appena dieci anni, eppure travolgente quanto un romanzo popolare della sua natìa Russia. Ancora oggi, nonostante il fatto che nessuna esibizione di Nijinsky sia mai stata filmata, la sua leggendaria elevazione nel salto è ritenuta senza eguali; del resto, furono proprio le capacità atletiche e il talento artistico quasi soprannaturali a farne l’attrazione principale degli storici «Ballets Russes» fondati nel 1909 dal geniale impresario Sergei Diaghilev. 

Da San Pietroburgo, in breve tempo il giovane danzatore conquistò così Parigi, e da lì il mondo intero: e mentre la frase «avez-vous vu Nijinsky danser?» diveniva un cliché salottiero, in teatro le signore svenivano nell’assistere all’incredibile «stag jump» con cui Vaslav chiudeva l’etereo balletto Le Spectre de la Rose, o alla sua straziante interpretazione di Albrecht in una versione di Giselle che ottenne anche il plauso di Marcel Proust. Non solo: mentre era conteso come modello dai maggiori artisti del tempo, Nijinsky si misurava anche con la sperimentazione più pura, tramite exploit d’avanguardia quantomeno audaci – come il fin troppo moderno Le Sacre du Printemps, la cui «prima» parigina, nel 1913, causò una vera e propria rivolta all’interno del teatro.

Tale coraggio, tuttavia, era stato raggiunto a caro prezzo. Infatti, sebbene l’introverso e solitario Vaslav avesse mostrato fin da bambino un talento quasi incredibile per la danza, l’estrema indigenza l’aveva presto costretto ad affidarsi a mecenati facoltosi – il che, all’epoca, significò inevitabilmente ritrovarsi nel letto di Diaghilev e divenire in tutto e per tutto sua proprietà.

Certo, Sergei Pavlovich permise al suo protetto una libertà creativa pressoché totale – dandogli la possibilità di ideare e coreografare lavori «di rottura» come L’Après-midi d’un Faune (1912), a tutt’oggi uno dei più attuali e scioccanti balletti del ’900: un sensuale precursore della danza moderna, ispirato alle pose bidimensionali delle pitture tombali egizie ed elleniche. Allo stesso tempo, però, la condizione di «prigioniero» del proprio impresario comportava un soffocamento emotivo al quale il taciturno e timidissimo Vaslav non poteva rassegnarsi; e l’occasione di fuga arrivò nel 1913, quando, sul piroscafo che lo conduceva in Sudamerica per una tournée, l’artista decise impulsivamente di sposare l’ungherese Romola de Pulszky. 

Ma tale atto di ribellione non tardò a causare ripercussioni, allorché Diaghilev, avuta notizia delle nozze, licenziò in tronco la geniale star dei Ballets Russes. Ed è a quest’evento traumatico che si possono far risalire i primi, concreti cedimenti nella psiche di Nijinsky – scompensi catturati in modo raggelante, eppure evocativo, nei celebri Diari da lui redatti nel 1919, dopo il trasferimento con la moglie e la figlia Kyra a St. Moritz: quasi la cronaca in diretta della discesa nella psicosi di un’anima fin troppo candida e sensibile.

In realtà, l’inquietudine di vivere del ballerino aveva basi ben tangibili: oltre agli svariati traumi giovanili e al dramma profondo di ogni artista incompreso («fingerò di essere un clown, affinché possano capirmi»), vi era il senso di colpa che Nijinsky si portava dentro per aver acconsentito a divenire «schiavo» di Diaghilev. La liberazione donatagli dall’amore per Romola e Kyra, grazie al quale aveva potuto infine seguire le proprie inclinazioni eterosessuali, non bastava ad affrancarlo dalla dipendenza da un uomo da cui si era sempre sentito manipolato – proprio come l’infelice marionetta Petrushka, da lui interpretata con tanto trasporto sul palco. 

Eppure, nonostante Vaslav andasse via via perdendo il contatto con la realtà, la sua capacità di creare bellezza, spingendosi ben oltre i confini della banalità quotidiana, risplendeva più che mai. A St. Moritz egli perfezionò infatti un personale quanto rivoluzionario sistema di notazione della danza, peraltro decifrato solo in tempi recenti dagli studiosi; e proprio laggiù, nella sala da ballo dell’hotel Suvretta House, ebbe luogo la sua ultima performance – una danza solista quasi totalmente improvvisata, caratterizzata da tale violenza e dolore da lasciare gli astanti sopraffatti: era il grido di protesta di uno sconvolto Nijinsky davanti all’orrore per lui incomprensibile della Grande Guerra appena conclusasi. Solo poche settimane dopo, veniva internato a seguito della temuta diagnosi di schizofrenia. Non si sarebbe mai più esibito. 

In molti hanno sottolineato come i successivi trent’anni della vita di Vaslav Nijinsky, trascorsi in un mutismo quasi catatonico tra un ospedale psichiatrico e l’altro, non mostrerebbero alcuna correlazione con l’uomo che egli era stato in gioventù: in realtà, a sorprendere è la quieta – ma, non per questo, meno significativa – dignità di cui l’artista rimase capace. Negletto e sottoposto a mille privazioni (la Svizzera fu l’unico luogo nei cui sanatori venne trattato umanamente, e a cui avrebbe sempre fatto ritorno), scampò per un soffio allo sterminio operato dai nazisti sui pazienti psichiatrici; ma le brutali terapie a base di ripetuti coma insulinici (in tutto ben 228) ne avevano ormai minato il fisico, e nel 1950, appena sessantenne, «il dio della danza» si spense a Londra – finalmente, dopo decenni, da uomo libero. 

Ma forse, dentro di sé, il sognatore Nijinsky non era mai stato davvero prigioniero, nemmeno nei peggiori momenti di malattia: anima senza tempo né età, in lui l’eterna, bruciante ipersensibilità – e l’astrazione da essa originata – erano sempre state mezzo non solo artistico, ma anche spirituale, e perfino metafisico. Come ebbe a dire egli stesso, «nella mia follia risiede il mio amore per l’umanità».