Netflix la balena del cinema

Il ruolo della piattaforma diventa sempre più importante, anche più dei festival, attraendo ora pure i migliori registi
/ 21.08.2017
di Mariarosa Mancuso

Mentre il Locarno Festival prospera come se nel cinema nulla fosse accaduto dagli anni 70 a oggi – coltivando un suo pubblico affezionato e altrettanto nostalgico, non si spiegherebbero sennò i risultati dell’edizione appena conclusa con un Palmarès che più cinefilo non si poteva – il resto del mondo parla di Netflix.

Discute e commenta non i primi piani sul volto di una contadina cinese moribonda (nel film vincitore, Mrs Fang di Wang Bing) ma gli ottimi colpi appena messi a segno dalla piattaforma streaming. Per esempio il contratto firmato con Shonda Rhimes, scrittrice e produttrice – basta citare Grey’s Anatomy, Scandal, Le regole del delitto perfetto – che ha traslocato dalla ABC verso Netflix la sua società «Shondaland». Per esempio, il progetto di una serie comica d’animazione firmata Matt Groening, il creatore dei «Simpson». Per esempio, una nuova serie western diretta dai fratelli Ethan e Joel Cohen.

Saranno targati Netflix il prossimo film di Martin Scorsese, The Irishman (con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci), e Bright, il nuovo film con il campione di incassi Will Smith. Vedremo su Netflix anche Le nostre anime di notte dal romanzo di Kent Haruf, evento speciale alla prossima Mostra di Venezia: gli attori sono Jane Fonda e Robert Redford, che riceveranno un premio alla carriera.

Troppe cose e troppi nomi per far finta di niente. È su Netflix anche What Happened to Monday di Tommy Wirkola, presentato in Piazza Grande a Locarno (dal 18 agosto, per gli spettatori inglesi e americani, in altri paesi prenderà la via delle sale). Ed è su Netflix Okja di Bong Jong-ho, il film che assieme a The Meyrowitz Stories di Noah Baumbach diede scandalo a Cannes, perché non sarebbe uscito nei cinema francesi. Programmarlo nelle sale, anche poche e per un solo giorno – colpa di una legge anche più fuori dal tempo della cinefilia coltivata al Locarno Festival – obbligherebbe a tenere il film fermo due anni, prima di poterlo mostrare su uno schermo con abbonamento mensile. Tale risulta infatti Netflix.

Non sfuggirà a nessuno che i fratelli Ethan e Joel Coen o Noah Baumbach sono registi finora coccolati dai festival cinematografici, quindi non possiamo liquidare Netflix – hanno tentato di farlo i francesi – come «la solita cattiva multinazionale americana». La situazione è più complicata e molto più interessante. Il colosso dello streaming – 104 milioni di abbonati in 190 paesi, dall’Irlanda al Giappone all’Afghanistan – non inquina, non sfrutta il lavoro minorile né va a produrre nel terzo mondo. In cambio di un obolo mensile ragionevolmente basso – meno del biglietto che si paga per un film – mette a disposizione serie, originali oppure già in onda sulla tv via cavo, documentari, registrazioni di spettacoli comici, e appunto film.

Va per festival, anche, e acquista titoli non esattamente da grande pubblico (guardabili però: si possono girare bei film senza punire lo spettatore). All’ultimo Sundance Film Festival – il festival del cinema indipendente americano voluto da Robert Redford – Netflix e Amazon hanno fatto una bella campagna acquisti, facendo alzare i prezzi. E anche questo, per un cinema indipendente che sempre lamenta l’omologazione dei gusti e la scarsità dei finanziamenti, è un risultato notevole.

L’ultimo numero di «Variety» dedica la copertina a Ted Sarandos, Chief Content Officer di Netflix. Passano da lui i contenuti della piattaforma, nata per distribuire DVD via posta (senza la fregatura di ritornarli, bastava infilarli una bucalettere del mitico servizio postale USA: sembra la preistoria, ma è così). «Abbiamo cominciato a produrre contenuti originali cinque anni fa», ricorda. Saggia decisione: è di questi giorni anche la notizia che Disney intende ritirare dalla piattaforma Netflix i propri film – anche i classici, anche i titoli Pixar – per avviare uno streaming suo.

Racconta Ted Sarandos (greco di origine) che per accontentare gli spettatori dei diversi paesi molti sono i progetti radicati nei territori: alla mostra di Venezia vedremo Suburra, prima produzione Netflix italiana con Michele Placido nell’inedito ruolo di showrunner. E anche questa dovrebbe essere una buona notizia, per chi lamenta lo strapotere di Hollywood sul nostro immaginario. Ava DuVernay, che qualche anno fa scatenò la campagna #Oscarsowhite, loda l’apertura di Netflix alla diversità e alle minoranze. Il diavolo Netflix non sembra così brutto come lo si dipinge. Anche se i nemici dicono che si comporta come Pac Man, divorando tutto quel che trova sul suo cammino.