Dove e quando
Roberto Pellegrini. Ateliers, Minusio, Museo Elisarion (Via Simen 3). Orari: ve-sa-do 15:00-18:00. Fino al 5 maggio 2018.


Nelle arene degli artisti

Il fotografo ticinese Roberto Pellegrini è entrato negli atelier di molti artisti, offrendoci uno sguardo nuovo sul loro lavoro
/ 30.04.2018
di Gian Franco Ragno

Assai noto a livello locale per il suo vasto e puntuale lavoro professionale, Roberto Pellegrini è autore anche di progetti artistici che presenta regolarmente, da un paio di decenni, in varie sedi espositive ticinesi.

Tra le molte occasioni va sicuramente ricordato Pieni&vuoti, proposto nel 2009 alla Pinacoteca Züst, con il bel catalogo disegnato dall’indimenticato grafico asconese Marco Mariotta, a sua volta complice e suggeritore di una trilogia (con Sopra&sotto e Dentro&fuori) che si sarebbe compiuta negli anni successivi. In questo primo episodio della trilogia, in breve sostanza, in due scatti successivi ed esposti sempre a coppia, Pellegrini ritraeva in prima battuta un interno di una dimora storica con tutto il mobilio e i suoi oggetti e in uno scatto e momento successivo il luogo sgombro e senza traccia se non di se stesso e del proprio volume; inaspettatamente ampio, ma senza memoria.

Nella sua solo apparente semplicità l’operazione rivestiva un profondo significato culturale, in quanto dava un segnale forte sull’urgenza della salvaguardia degli edifici storici e della cultura materiale che contenevano. Come sappiamo, la tendenza alla cancellazione di tali residenze non si è invertita negli anni, lasciando spazio a costruzioni spesso anonime.

Già allora si intravedeva una componente chiave della poetica del fotografo – ovvero il rapporto dell’uomo con il suo ambiente di vita, l’abitare come riflesso di sé – che rimarrà a lungo una costante e una sorta di tema privilegiato.

Vent’anni più tardi, e sino a inizio maggio nei suggestivi spazi dell’Elisarion di Minusio, Ateliers propone una serie di fotografie di artisti nel loro spazio più intimo e privato, ovvero gli studi: ventuno i ritratti in esposizione, e in totale trentaquattro nel catalogo edito da Salvioni in cui sono presenti i saggi di Diego Stephani e Veronica Provenzale.

Se il genere del ritratto d’artista, specie accanto e in dialogo con le proprie opere, è stato largamente frequentato, nell’attuale progetto di Pellegrini tuttavia c’è qualcosa di diverso, una fisionomia inedita. In modo sottile e solamente progressivamente, ci rendiamo infatti conto che il vero protagonista delle immagine è lo spazio, più che l’uomo: un ambiente che riflette e al tempo stesso assorbe la materia dell’arte prodotta individualmente. La luce che illumina l’artista – una sorta di occhio di bue teatrale – è solo l’inizio suggerito all’approccio alla fotografia: infatti l’artista non domina mai fisicamente la scena ma, in qualche modo, la abita con naturale quotidianità. La componente più intensa si rivela altrove: nella penombra, ovvero nei dettagli dello studio, negli strumenti di lavoro, nei pennelli, nelle tavole con progetti e dalle pareti ingombre. Dalla presenza, ad esempio, di torchi oppure dall’accumulo di materiale, cornici e tele. Da una sorta di sensazione di compressione, ma al tempo stesso di intimità, di stratificazione di stagioni ed esperienze.

Altro aspetto che lentamente si fa strada è la consapevolezza di un’originale varietà degli ambienti: dallo scarno ambiente industriale di Cesare Lucchini all’ordinato spazio quasi espositivo di Simona Bellini; da quella che sembra una grotta privata, che presenta comunque alcuni riferimenti culturali di Pierre Casé, all’intimo studiolo, più da umanista che da artista, di Paolo Mazzuchelli. Alcune di queste officine creative arrivano a contemplare anche una piccola biblioteca, come lo studio dell’anziano artista romano Guido Strazza. Per finire con l’ordine compositivo e concettuale anche all’interno delle scaffalature di Gianfredo Camesi: forse l’immagine più riuscita e conclusa, e ciò non a caso, vista la complicità artistica tra il fotografo e l’artista ticinese oggi a Colonia.

Se è vero che quando si ritrae si porta nel risultato parte di sé e del proprio vissuto in una sorta di rispecchiamento, Pellegrini in ultima istanza sembra suggerire e rimarcare, senza cadere nella mitologia dell’artista, i valori dell’esperienza e del fare, la competenza da mettere in campo nelle proprie private arene. E ciò vale anche per la fotografia – professione spesso ambita ma altrettanto frequentemente esercitata con molta improvvisazione e poca cultura, più per voglia di protagonismo e senza quella necessaria e vitale curiosità visiva.