Bibliografia
Maria Grazia Calandrone, Giardino della gioia, Milano, Mondadori, 2019


Nei giardini della vita

La nuova raccolta poetica di Maria Grazia Calandrone
/ 30.03.2020
di Guido Monti

Maria Grazia Calandrone in epigrafe alla sua nuova raccolta titolata Giardino della gioia e uscita per la collezione Lo Specchio scrive, e dietro sembra arieggiare quell’indimenticabile titolo, Comizi d’amore, che Pier Paolo Pasolini diede a un suo film-documentario uscito nel 1965 sui costumi degli italiani: «Siccome nasce / come poesia d’amore, questa poesia / è politica»; e questa asserzione della poetessa tocca sottotraccia, anche se con accenti molto vari, le nove parti in cui è suddiviso il libro dalla prima, Io sono gli altri, titolo da cui è tratto il poemetto, già uscito per l’editore Stampa 2009, all’ultima, Rosso Roma.

Calandrone ci fa subito intendere che la poesia, non può che venire dal profondo delle relazioni che costruiscono poi i gradini essenziali della vita e il Giardino della gioia che dà il nome anche al secondo capitolo del libro, cos’è se non un Eden che si allunga profondo e lucente su ciò che siamo, ravvivando talvolta con l’oro della sua rammemorazione, il chiaroscuro della quotidianità: «… // volevo scrivere della gioia // l’odore del tuo fiato nel cuore / dell’estate // il morso / leggero dei tuoi denti proprio all’orlo / la luce della luna // getta nelle pozzanghere / il bianco degli astri». Ecco che la scrittura della poetessa costruisce uno spazio dove la relazione con l’altro informa di sé tutto ciò che le è attorno; il paesaggio, i manufatti, le faune, parlano il linguaggio metafisico degli amanti, di esso si colorano.

E certo questi quadri non ritraggono una istantanea ferma e sbiadita, ma appunto il picco lucente e sempre in movimento di ogni istante amoroso che è, che sarà, quella cosa dove tutti ci riconoscemmo, ci riconosceremo: «… // i nostri corpi / hanno retto al calore / della fusione // ora che siamo esposti / alla felicità // ogni altra parola / significa / grazie».

Ecco poi che d’un tratto queste figure, così presenti alla loro luce, vengono come abrase dalla vita, quasi si sfarinano tra un verso e l’altro, per tornare indistinte a far parte di quella grande idea d’amore mai astratta però, che percorre pagine acutissime: «… // L’ideogramma giapponese di amore esprime il concetto dell’anima umana come contenitore insufficiente per il sentimento amoroso. L’ideogramma giapponese di amore, come quello cinese, si pronuncia “ài”». Quell’amore come ci ricorda la poetessa citando Dante «che move il sole e l’altre stelle» e che disgrega il tetro individualismo, la tetra immobilità di ognuno di noi. Di questo alto sentire quindi Maria Grazia Calandrone, ci ha voluto donare la verità che racchiude il nocciolo poetico.

Ma l’originalità del Giardino della gioia è anche far crescere nel verso, man mano che si avanza, delle antinomie; difatti la febbre d’amore diviene se inarrestabile, patologia e a ragione è chiamata, già nel titolo del quinto capitolo, Il disamore. Quella relazione non più aperta all’altro ma chiusa nei fantasmi interiori, nelle fobie della devianza comportamentale, che vira verso il puro solipsismo. Si riaffacciano dunque i fantasmi delle cronache lontane ma sempre così attuali: Pietro Maso, Maria e Massimo Geusa, Nadia Frigerio e tanti altri che si fanno carnefici dei propri cari, siano essi mogli, mariti, fratelli, bambini, genitori; e questo avvicinamento davvero straniante, dell’amore celeste per profondità d’intenti con quello sulfureo, vagante, nel fuoco dei gironi infernali, è attuato con velocità inaudita da una pagina all’altra.

Quasi si intuisce che ogni relazione potrebbe viaggiare nel celeste, ma chissà per quanto. Le declinazioni delinquenziali delle figure che si susseguono, non è dato sapere quanto dipendano dalla società malvagia e quanto dal dispiegamento degli archetipi freudiani, sempre pronti a venir fuori, per annullare l’equilibrio di ragione e sentimento che ci fa godere pienamente del rapporto: «... // l’ho avvoltolata nella coperta piccola che usava di sera per guardare la televisione, l’ho caricata sulla macchina e l’ho portata via. nessun sentimento, abbiamo fatto della strada sotto l’acqua nel buio verso il bosco. quella che guidavo non ero più io. il corpo è ruzzolato giù nel fossato, nel freddo e nel temporale. temevo solo di esser scoperta // …».

E potremmo chiamare questa raccolta, il libro della relazione, che qui si svolge in tutte le variegate possibilità delle sue sfumature; come chiamare, se non appunto volontà di relazione, quel dialogo-monologo con l’ombra della MadreAlfa, così nel titolo della poesia, di là di ogni accezione psicoanalitica: «… // Facevi la donna di servizio nella Milano dell’immigrazione. Quando arrivavi / a notte alta, forse ancora una volta sconfitta, chi dice «io / in questa poesia, percepiva di te/solo i frammenti di proprio interesse, / … / Dicevi “un giorno saprai”,… / … ma certamente il tono ti tradiva. Non so altro che questo non sapere // …». E poi invece ecco mischiarsi in relazioni talora dissonanti, linguaggi che provocano straniamento; cozzano difatti le parole disperate di una operatrice Ong, ancorate a un’etica che si fa ogni giorno prassi disattesa, con quelle dello spamming prese dal deep web che ci trascinano nell’anarchia di un mondo senza più l’archetipo a sorreggerlo: «…“Ab-bia-mo-ob-be-di-to-agli-or-di-ni-e-la-scia-to-morire-cen-to-ven-ti-migranti” Se siete interessati, sentitevi liberi di tornare a voi cordialmente».

Le parole giocano al rialzo o al ribasso dentro le iterazioni di ogni uomo e anche della tecnologia. E nella parte finale, ecco tornare il verso all’amore bello, alla parola stupita di nominare ancora l’esistenza di tutti noi, questo miracolo, che la scrittura di Maria Grazia Calandrone, ricerca nell’alto e nel basso e che pare ricongiungersi col brusio di fondo dell’universo, esserne forse le sue lontane stimmate.Eccola scorrere davvero la vita, in queste pagine e non dovremmo mai smettere di venerarla, non da idolatri naturalmente ma da individui consapevoli della precarietà che ci accende e per questo ci fa davvero essere: «… / …sembra / di afferrare parole circostanziate / come: “La giornata è compiuta, se ho lasciato / una riga di bellezza / su un foglio bianco, o in uno sguardo umano” / . Non aggiungono altro. Non c’è / altro».