Natale in istituto

Testimonianza - Il ricordo di uno dei tanti Verdingkinder, i bambini sottratti alle famiglie e collocati in istituto o dati in adozione senza il consenso dei genitori, tratto dal libro autobiografico Infanzia rubata
/ 23.12.2019
di Sergio Devecchi

Ogni primavera e ogni autunno, Emil Rupflin, il fondatore degli istituti «Dio aiuta», passava da Pura con l’autista, lo zio Werner. Voleva farsi un’idea delle aziende di sua proprietà sul posto. Per noi bambini comportava il doppio del lavoro. Avevamo un grande rispetto per quell’uomo, perché sentivamo che da lui dipendeva il nostro destino. E non soltanto il nostro: Rupflin teneva in mano tutti i fili. Era lui che stabiliva dove dovevano lavorare gli zii e le zie e come bisognava gestire gli istituti. Gli assistenti potevano certo proporsi volontariamente per il servizio, ma con ciò la loro autodeterminazione finiva. Già dalla più tenera età ebbi modo di osservare come gli adulti eseguissero senza lamentarsi le istruzioni di Rupflin, anche quando queste avevano conseguenze decisive sulle loro vite. Capitava che una zia o uno zio sparisse da un giorno all’altro perché serviva in un altro istituto. Si trattava di compiti diaconali, quindi non ricevevano alcuno stipendio, ma solo vitto, alloggio e denaro per le piccole spese. Quando con l’età non erano più in grado di lavorare, li aspettava l’ospizio di proprietà della fondazione a Zizers. E alla fine un posto in paradiso. Due settimane prima dell’arrivo di Emil Rupflin cominciavano le grandi pulizie. Tutto doveva essere sistemato alla perfezione. Ci infilavamo negli angoli più reconditi, toglievamo la polvere, lucidavamo i pavimenti e il giorno dell’arrivo eravamo esausti. Appena si udiva il clacson che l’autista azionava per ordine del capo, i collaboratori e noi bambini ci precipitavamo fuori e restavamo sull’attenti. Poi ci ritrovavamo davanti quell’uomo benevolo e severo con i capelli bianchi. Mi incuteva timore, quando ci accarezzava i capelli e intanto citava il suo Gesù. Mentre Rupflin ispezionava la lunga serie dei suoi sottoposti, lo zio Werner si infilava una tuta e lucidava la macchina. Ce n’era proprio bisogno, dopo il lungo viaggio attraverso le Alpi.

Sua moglie Babette, invece, mi piaceva. Emanava una bonarietà che faceva bene alle nostre anime intristite. Dovevamo chiamarla mammina, mamma era riservato, come ho già detto, alla direttrice dell’istituto, e mami alla nuora di Rupflin (Marguerite) a Zizers, che aveva sposato il figlio Samuel. Mi ricordo bene di Babette Rupflin. Dopo il mio trasferimento nell’istituto di Zizers, una volta alla fine dell’autunno fui mandato a raccogliere la valeriana. Mi inginocchiai sul terreno già ghiacciato, avevo le dita rigide per il freddo e singhiozzavo disperato di nascosto. Mammina Rupflin si trovava per caso lì vicino e mi sentì. Mi aiutò ad alzarmi e mi portò nella stalla calda. Lì potei riscaldarmi le dita su Pia, la mia grande e bella mucca preferita. E Babette Rupflin fece in modo che quel giorno non dovessi più tornare in giardino.

A volte lei e suo marito si ritiravano a dialogare con Dio nel «Taborli», la casa delle vacanze del «Dio aiuta» sopra Zizers. Allora le collaboratrici e i collaboratori sapevano di doversi aspettare dei cambiamenti. Lassù, in quell’isolamento, Emil Rupflin decideva quale nuova sede dovesse essere acquisita, quale chiusa, quali collaboratori fossero da trasferire e dove. Nonostante i problemi di salute, quell’uomo anziano diresse la fondazione fino alla fine. Morì nel 1966, due anni dopo il mio congedo dall’istituto. Oggi è venerato dai suoi successori come «pioniere degli istituti». Io continuo a non capire come mai quell’ex ufficiale dell’Esercito della salvezza, originario della Germania, nel bel mezzo della Prima guerra mondiale, invece di occuparsi di veri orfani nell’Europa devastata, abbia fondato degli istituti per bambini in Svizzera.

Noi bambini tiravamo sempre un sospiro di sollievo quando il patriarca ripartiva. Subito dopo l’ispezione autunnale di Rupflin, cominciava il periodo prenatalizio. Nelle domeniche dell’Avvento i più grandi suonavano una serenata con il flauto dolce per i collaboratori. Come tutti i bambini, anche noi pregustavamo le feste di Natale. Era un raro diversivo nella nostra quotidianità, e soprattutto non eravamo costretti a lavorare. La mattina di Natale, ancora al buio, ci recavamo tutti nell’edificio principale: i più piccoli dalla «casetta dei nani», accompagnati dalla zia Anneli, i più grandi dietro di loro, le mani nelle tasche dei pantaloni. Aspettavamo in silenzio davanti al refettorio, finché la porta non si apriva. La vista dell’enorme albero di Natale, con le candele accese e le stelle di paglia che avevamo fabbricato per settimane, era ogni volta sconvolgente. Intonavamo tutti i canti di Natale che conoscevamo, insieme agli zii e alle zie. Non c’erano ospiti. In tutti quegli anni non ho mai saputo di un bambino dell’istituto che avesse ricevuto una visita per Natale.

Quando fuori faceva giorno, ci sedevamo ai tavoli. C’era pane bianco, burro e cioccolata calda. Natale era l’unico giorno dell’anno in cui – compatibilmente con le nostre condizioni – potevamo gozzovigliare un po’. Subito sbirciavamo l’albero di Natale: sotto c’erano i pacchi con i biglietti su cui erano scritti i nomi, e in segreto ci chiedevamo timorosi se qualcuno avesse pensato a noi. Il più delle volte il tutore, che non avevo ancora mai visto in faccia, mi mandava un paio di calze e una tavoletta di cioccolata. Dopo il mio battesimo arrivarono dei regali anche dalla madrina Hulda e dal padrino Jakob. Il direttore sollevava un pacco dopo l’altro, leggeva il nome ad alta voce e consegnava solennemente l’agognato dono. Una volta accadde il temuto disastro: il mio nome non venne pronunciato. La vergogna superava persino la delusione. Dall’angolo più remoto del refettorio guardavo attraverso un velo di lacrime gli altri bambini che spezzavano allegri lo spago dei loro pacchi. Anni dopo avrei riprovato quell’identico sentimento alla scuola reclute. Quando la posta veniva consegnata e gli altri ricevevano i loro pacchi di viveri, io restavo a mani vuote.

Dopo la distribuzione delle strenne, gli zii e le zie ci portavano via i dolciumi per poi suddividerli in modo che tutti ricevessero qualcosa. Ci cascai solo una volta, gli anni seguenti mangiai all’istante la mia cioccolata. Quel che avevi, avevi. Per il pranzo di Natale c’erano sempre crauti, forse come contrappasso culinario alla colazione eccezionalmente gradevole. Nel pomeriggio seguiva una passeggiata nel bosco, poi la festa era finita.

Una cosa mi ricordo in modo particolare. Era la vigilia di Natale e nel tardo pomeriggio telefonò l’impiegato delle Poste di Pura dicendo che c’era un pacco per Sergio. Se volevo prenderlo prima di Natale, potevo passare da casa sua. Partii subito, nel bosco era già buio pesto. Le nuvole coprivano a tratti la luna, nevicava appena. Nel villaggio c’era silenzio, le mie scarpe chiodate battevano forte sulle pietre della pavimentazione. Suonai alla casa del postino. Quello aprì la porta e andò a prendere il pacchetto. Da fuori guardai nel soggiorno, dove la famiglia era seduta al tavolo da pranzo alla luce delle candele. I due figli mi guardavano senza parlare, li conoscevo dalla scuola. Il postino tornò e mi porse il pacco. «Buon Natale», mi augurò, poi la porta si richiuse. Il pacco veniva dal tutore. Con molta cautela, quasi fosse di vetro, lo portai attraverso il bosco e lo consegnai all’istituto. La mattina di Natale stava sotto l’albero, dopo un’eternità fui finalmente autorizzato a scartarlo. Una scatola di costruzioni del meccano! Ero al settimo cielo. Non avevo mai ricevuto niente di così prezioso. Contai le viti, disposi le parti di metallo sul tavolo. Scrissi al tutore una lunghissima lettera di ringraziamento, nella speranza che anche l’anno dopo mi avrebbe fatto un regalo così principesco. Ma le cose andarono diversamente. Quello fu il mio ultimo Natale a Pura, e con il tutore ebbi a che fare prima di quanto avessi voluto.

Bibliografia
Sergio Devecchi, Infanzia rubata. La mia vita di bambino sottratto alla famiglia, edizioni Casagrande, Bellinzona 2019.