*) Nino Piccione, scomparso la scorsa estate, è stato un giornalista e scrittore italiano. Nato a Ramacca, in provincia di Catania, ha vissuto a Roma. Il racconto che pubblichiamo per gentile concessione delle figlie è ambientato proprio a Ramacca ed è contenuto nel volume di Francesco Grisi Il Natale, storia e leggende. Piccione ha pubblicato alcuni ricordi di guerra di suo padre – tra cui quello che appare in questa pagina – anche nel romanzo Canto patriottico di un piccione siciliano sulle balze del San Michele, Città del Sole Edizioni, 2015).


Natale 1918

Racconto - I ricordi di un soldato italiano, prigioniero di guerra, che raggiungeva il proprio paese e la propria famiglia la notte della Vigilia di cento anni fa
/ 24.12.2018
di Nino Piccione*

L’amore che vince la morte: questo rappresentò il Natale per mio padre. E così lo visse sempre. La morte l’aveva sfiorato tante volte in guerra, la prima grande guerra: per mesi al fronte, con gli assalti alle trincee nemiche e il fuoco che mieteva vittime, ragazzi come lui, la carne dilaniata, le membra contorte e gli occhi dilatati dalla fine violenta fissi al cielo o la faccia in giù sporca di fango e di sangue, le braccia spalancate come in croce, inerti.

Poi la prigionia, la fame, il lavoro duro, le angherie, ma soprattutto la nostalgia per la sposa giovanissima, uno spasimo che lo rodeva dentro più della fame, più dei patimenti. La fine della guerra lo trovò a Leopoli dove assistette al divampare della rivoluzione russa: esplosioni di furore, scontri sanguinosi, con uomini, donne e anche bambini armati e drappelli tumultuanti con bandiere color sangue in testa e strade sparse di cadaveri.

Il treno dei prigionieri italiani, ormai liberi, procedeva lentamente sbuffando e annaspando sulle salite e lasciava deserti di rovine. Ma la rovina era anche nel cuore dei soldati, con il carico di rancore per i nemici, e quando uno scrisse dei versi su un foglietto che si passarono di mano in mano, un coro si levò possente:

Austriaci di razza dannatagente infame, incivile nazionedeturpasti d’Italia l’onorecol martirio dei suoi prigionier.

Altri versi ricordavano le mortificazioni, le violenze subite e parlavano di odio e di vendetta. Un canto semplice e terribile, genuino e violento.

Dopo giorni e notti il treno attraversò il confine italiano, ma molti erano malati e furono ricoverati negli ospedali delle città vicine. E qualcuno morì. Orrenda beffa del destino. Anche mio padre fu ricoverato e di lì scrisse lettere tenerissime a mia madre, fino a quando gli dissero che era guarito e poté riprendere il treno per il Sud.

Era la notte del 23 dicembre quando giunse a Catania. Non c’erano mezzi di trasporto. Ma cos’erano cinquanta chilometri quando l’urgenza del cuore lo spingeva come il vento per abbracciare finalmente i suoi cari. Insieme con un compagno decisero di raggiungere il paese a piedi. La notte era gelida, ma non sentivano freddo e camminavano spediti, un piccolo zaino sulle spalle. Era l’alba quando arrivarono alla piana, immensa nella sua solitudine, verdissima. Attraverso una trazzera (in Sicilia, è una via che attraversa i campi e serve al passaggio degli armenti, ndr) si avvicinarono ad una masseria. Il silenzio fu squarciato dal latrare dei cani. Da una finestra si sporse un volto solcato di rughe.

«Siamo soldati che torniamo dalla prigionia e stiamo raggiungendo il paese». L’uomo si ritirò senza rispondere e chiuse la finestra. Mio padre e il compagno si guardarono, muti. Avevano afferrato lo zaino e stavano per riprendere il cammino, quando l’uomo dal volto di rughe aprì la porta e disse: «Venite, entrate». Era vecchio e un po’ curvo, un tabarro sbiadito sulle spalle e un berretto di lana in testa. La stanza era calda. C’era un odore acuto. Agli angoli sacchi di mandorle, fave, ceci; da cordicelle attaccate a due pareti pendevano salumi, lardo, caciocavallo, aglio, cipolle, uvapassa e filari di fichisecchi. Al centro della stanza una ruvida tavola e, sparsi qua e là, alcuni sgabelli. «Sedetevi», disse l’uomo, «vi preparo qualcosa da mangiare».

Era di un paese del centro dell’isola e non li conosceva. Era rimasto solo; alla vigilia delle feste tutti erano tornati alle proprie case, anche i ragazzi allogati per tutto l’anno. Lui non aveva nessuno. La sua casa e il suo mondo erano la masseria.

Mio padre e il compagno mangiarono pane e formaggio e bevvero un vino forte e si sentirono rifocillati.

«Grazie», dissero, «vi siamo obbligati, non vi scorderemo».

«Vi auguro tanta pace e serenità», rispose l’uomo, «e auguri di Natale anche alle vostre famiglie dove ci sarà tanta contentezza quando vi vedranno». Dopo molte ore avevano raggiunto il centro più vicino al paese. Ormai distavano una decina di chilometri e le loro forze si moltiplicavano. Era già pomeriggio. Avevano imboccato lo stradone che, prima pianeggiante poi in salita, portava al paese. All’improvviso il cielo si era fatto nero; nubi dense scendevano sulla piana e tutto era diventato nero; l’Etna, coperta di nero e il fumo che usciva dal cratere anch’esso nero; il verde cupo degli agrumeti, di cui era ricca la zona, una massa nera. Il vento scuoteva con violenza gli alberi, saette tagliavano il cielo, che si aprì e sembrò che un diluvio subissasse la terra.

Cominciarono a correre per cercare riparo sotto un ponte, che appariva lontano, irraggiungibile. Più volte stramazzarono a terra. Finalmente il ponte. Attraverso una scarpata scesero e si ripararono sotto. Un fiumiciattolo scorreva turbolento. Si accasciarono nel fango tramortiti di stanchezza e di spavento. A poco a poco le acque cominciarono ad ingrossarsi, gorgogliando nere. Furono presi dal terrore.

«Siamo in pericolo», disse il compagno. E mio padre: «Aspettiamo ancora un poco, potrebbe finire questo inferno». Ma il fiume, come alimentato da una immensa massa d’acqua, si alzò minaccioso abbattendosi sulle pareti del ponte, che si piegarono all’urto.

Si sentirono perduti. Poi, in un momento di riflusso delle acque, fuggirono all’aperto, sprofondando nel terreno quasi sino alla cintola. Sostenendosi a vicenda procedevano a fatica, le gambe infossate nel fango pesanti come massi, l’acqua e il vento che li sferzavano. I lampi illuminavano due spettri.

Un boato li scosse. Una parete del ponte si piegò e la volta rovinò nel fiume. «Non ce la faccio a continuare», disse il compagno. Mio padre urlò con rabbia e disperazione: «Neppure io ce la faccio, ma dobbiamo uscire da qui; tra poco comincia la salita».

Camminarono ancora e, a mano a mano, le loro gambe emergevano dal fango con più facilità sino a quando si accorsero che la terra era pietrosa e cominciava la zona in salita. Un lampo fece apparire vicino una casupola. Ebbero ancora la forza di correre per raggiungerla. Bussarono a una porta rosa dalle intemperie. Nessuno rispose. Fu facile abbatterla a spallate. C’erano dentro paglia e fieno. Ne presero a manate, ne cosparsero il terreno e vi si buttarono come morti. Mio padre ebbe una crisi di pianto; anche l’altro singhiozzava, e ripetevano: «Siamo salvi, siamo salvi».

Si riposarono un po’. Poi ripresero il cammino verso il paese ormai vicino, che raggiunsero finalmente. I radi lampioni ad acetilene schiarivano le stradicciole. Ora la pioggia cadeva lenta; il vento era cessato. C’era un grande silenzio.

Si separarono. Mio padre pensò di recarsi alla casa dei genitori, poi sarebbe andato, ripulito, dai suoceri per trovare mia madre. Bussò alla porta dei suoi. Il cuore gli scoppiava di gioia e di emozione. Silenzio. Bussò ancora. Inutilmente. Non gli rimaneva che andare dai suoceri, ma anche lì nessuno si affacciò. Si sedette a terra, dinanzi alla porta, e si coprì il volto sporco di fango. Si sentì come schiacciato dalla stanchezza, dalla solitudine e dalla tristezza.

All’improvviso si ricordò che doveva essere mezzanotte. Come un fantasma, appoggiandosi ai muri con le forze residue, si avviò verso la chiesa: tutto il paese, il piccolo paese, era lì. Spinse lentamente la porta nel momento in cui tutti in piedi, il sacerdote sull’altare vestito dei paramenti bianchi, la chiesa schiarita da cento candele, cantavano:

Tu scendi dalle stelleo Re del Cieloe vieni in una grottaal freddo e al gelo...

Un singulto lo scosse con forza; poi non trattenne le lunghe lacrime.

Nota
*) Nino Piccione, scomparso la scorsa estate, è stato un giornalista e scrittore italiano. Nato a Ramacca, in provincia di Catania, ha vissuto a Roma. Il racconto che pubblichiamo per gentile concessione delle figlie è ambientato proprio a Ramacca ed è contenuto nel volume di Francesco Grisi Il Natale, storia e leggende. Piccione ha pubblicato alcuni ricordi di guerra di suo padre – tra cui quello che appare in questa pagina – anche nel romanzo Canto patriottico di un piccione siciliano sulle balze del San Michele, Città del Sole Edizioni, 2015).