Nella natia Bucarest ha provato i privilegi e le ristrettezze del comunismo; a Vienna si è consacrato come direttore d’orchestra, «ma è stato il Ticino il luogo dove sono letteralmente nato una seconda volta, questo posto benedetto da Dio per clima naturale e sociale in cui vivo da 25 anni e che considero ormai la mia vera patria». Come tutti i grandi musicisti gira il mondo e consuma i suoi mesi tra aerei, camere di hotel, teatri e sale da concerti (ha diretto Pavarotti e Carreras, eccelle nel Belcanto italiano, tra un paio di settimane tornerà alla Scala con Anna Bolena di Donizetti), ma Ion Marin ancora si emoziona quando parla della «sua» Massagno, «un esempio di convivenza con i suoi 8mila abitanti di 62 Paesi diversi; venire a vivere qui mi ha aiutato ad esorcizzare le mie origini: il primo Marin a non nascere sotto un regime totalitario è stato mio figlio Alexis, che ora ha vent’anni e ha frequentato tutte le scuole qui».
Quando parla di regime, Marin ne intende sia le luci assaporate soprattutto da bambino sia le ombre che anno dopo anno ha visto allungarsi, non solo sulla sua carriera di musicista. «Mio padre era direttore di coro e poi sotto Ceausescu divenne viceministro della cultura: una posizione privilegiata per tanti motivi, il salotto di casa nostra era il luogo ufficiale dove i grandi artisti stranieri venivano ricevuti in Romania.
Tra le mura domestiche ho visto passare miti come il pianista Sviatoslav Richter, i violinisti Isaac Stern e David Oistrakh, ma anche attori come Vittorio De Sica e Kirk Douglas. Fu attorno al tavolo di casa che si decise di far suonare al Festival Enescu il Doppio Concerto di Bach a Stern e Oistrakh, era un modo per contribuire seppur in modo simbolico al disgelo dei rapporto tra America e Unione Sovietica; anche se devo confessare che a quei tempi mi eccitava molto di più incontrare Douglas, avevo visto Spartacus e trovarmelo lì…»
Non che il piccolo Marin fosse digiuno di musica, anzi: «La musica è stata da sempre presente nella mia vita, era la colonna sonora anche dei miei giochi: mentre facevo andare le macchinine per terra o sul divano canticchiavo i madrigali rinascimentali, conoscevo a memoria le melodie di Gesualdo, Striggio, Banchieri. A tre anni iniziai col pianoforte e il violino, la musica è stata un elemento talmente naturale e famigliare che non mi sono mai posto il problema di che cosa fare da grande».
Forse se lo era posto di più suo padre: «Non voleva che diventassi un musicista, lui puntava soprattutto su mia sorella, maggiore di due anni; ma un giorno l’insegnante di pianoforte gli disse che lei proprio non era dotata, invece io le sembravo più predisposto». Da qui l’iscrizione a una scuola di musica, a sei anni: «Scuole elementari dove c’era tanta musica: doppio strumento e solfeggio obbligatorio, c’era una selezione pazzesca, ogni anno due esami ad eliminazione; anche l’educazione musicale rientrava nella propaganda del regime, chi non eccelleva veniva cacciato, si creava un agonismo come fossero gare di atletica».
Grazie anche agli appoggi paterni (oltre che a un talento sempre più evidente) a 15 anni può andare a perfezionarsi con Carlo Zecchi al Mozarteum di Salisburgo: «Lì respiravo musica non solo a lezione: durante il festival estivo incontravo Karajan per strada, al bar vedevo Kempff (uno dei maggiori pianisti del 900, ndr.) sorseggiare la cioccolata al tavolino accanto al mio. A quell’epoca pensavo di diventare un pianista e magari un compositore, fu Zecchi a spingermi a provare la direzione: mi presentò a Franco Ferrara, ma erano più convinti loro di me».
È il periodo in cui Marin sente con evidenza e urgenza più stringenti i vincoli del regime comunista: «A scuola avevamo la divisa con marchiato sul braccio il nostro numero di matricola, così se qualcuno commetteva qualche stupidata anche fuori dalle lezioni – rompere un vetro, sputare per strada – poteva essere denunciato da chiunque. A 16-17 anni avrei dovuto iniziare a tenere concerti all’estero: al di là dei disagi logistici – mi ricordo un viaggio in Finlandia in treno, tre giorni e tre notti per un recital – ogni volta bisognava chiedere il permesso alle autorità perché non avevamo il passaporto. Fu allora, non avevo ancora diciott’anni, che capii come la libertà non fosse potersi comprare una certa macchina, ma potersi assumere la responsabilità della propria vita».
Non tardò a prendersela, anzi la colse appena gli si presentò l’occasione: «Ero riuscito ad ottenere il permesso per andare a Vienna, appena fui là chiesi asilo politico, ma ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Intanto assistevo alle prove alla Staatsoper, c’era Abbado che stava preparando il Wozzeck di Berg. All’improvviso venne chiamato a Berlino per sostituire Karajan, malato: era l’87, dopo un paio d’anni sarebbe stato scelto dai Berliner Philharmoniker come loro nuovo direttore principale; lasciò il podio durante una prova, incertezza generale, io che ero in platea mi alzai e chiesi di poter continuare al suo posto.
Non mi conosceva nessuno, io di natura sono un timido ma quando si ha fame non si può essere timidi; e poi il Wozzeck era stato una mia tesi, quindi lo conoscevo perfettamente». L’exploit gli assicurò il posto di assistente, la cittadinanza per meriti artistici («l’ebbi prima del passaporto») e l’amicizia di Abbado: «Fu un secondo padre: grazie a lui e Domingo riuscii a far venire a Vienna mia moglie; mi raccontava di Toscanini e giocavamo a tennis, mangiavamo i tortelli di zucca che ci portava un amico mantovano».
Furono anni di intenso lavoro: «Alla Staatsoper ci sono 312 recite d’opera all’anno, praticamente ero sempre in teatro, fosse l’ufficio o la sala; avevo voglia di vedere il resto del mondo e poi dopo la caduta del Muro mi preoccupavano certe derive di estrema destra, così nel 1991 decisi di cambiare aria. Pensai alla Svizzera, anche se musicalmente sembrava una follia passare da Vienna a Lugano, ma dopo 25 anni sono convinto di aver fatto la scelta giusta».