«Bisogna vivere duecento anni per potersi far conoscere in Francia, quando si è compositore!» Constatazione amara di un profeta inascoltato in patria, Hector Berlioz (1803-1869), che dovette attendere la morte per diventare emblema del riscatto gallico dopo il crollo del secondo Impero francese causa la rovinosa sconfitta nella guerra contro la Prussia.
A un secolo e mezzo dalla morte di Berlioz, le etichette che perseguitarono il grande compositore romantico in vita – il poeta tedesco Heinrich Heine lo definì «sulfureo, babilonico, ninivitico, mostruoso, gigantesco, bizzarro» – sono diventate un valore. Un tesoro ammirato da più generazioni di grandi direttori, consegnato alle storiche incisioni di Pierre Monteux e Charles Munch, non dimenticando Toscanini e Thomas Beecham, fino alle rivelatrici integrali di Colin Davis.
A ventisette anni Berlioz aveva già presentato al pubblico del Conservatoire di Parigi, la Symphonie fantastique (1830), per la quale scrisse un «programma» dove trovavano espressione le autobiografiche «scene della vita di un’artista», afflitto, come tutta la sua generazione, dal male di vivere. Il poetico spleen era condiviso con molti degli artisti presenti nel novembre del ’32 alla ripresa parigina della Fantastique: Victor Hugo, Dumas padre, Heine, Liszt e Paganini, Chopin e George Sand, Thèophile Gautiers e Jules Janin.
Tutte le opere di Berlioz varcano i confini di genere, legandosi alla poesia, al romanzo, alla pittura, alla storia. «Una miscela di sentimenti e impressioni letterarie che vanno dall’antichità latina, alle evocazioni bibliche, ai ricordi di un Egitto tutto immaginario, visioni eroiche dell’infanzia che rimarranno costantemente presenti alla sua fantasia fino alla più tarda età». Impressioni attinte da Virgilio, da Chateaubriand, da Goethe, da Thomas Moore, da Shakespeare, da Byron che spingono la fantasia del compositore a invenzioni timbriche inaudite e grandiose.
Il clamoroso successo della Fantastique rivoluzionò «il campo dell’orchestrazione e si può dire che abbia fatto “scuola”», come scrisse Charles Gounod nel 1882, quando Berlioz era conteso fra i maggiori direttori francesi «fine secolo», Edouard Colonne, Charles Lamoureaux, Jules Pasdeloup. È il momento in cui le precorritrici ibridazioni compiute con la sinfonia per viola e orchestra Harolde en Italie (1834) e la sinfonia drammatico-vocale Roméo et Juliette (1839), l’oratorio visionario La Damnation de Faust (1846), i colossi religiosi Requiem (1837) e Te Deum (1855), diventarono colonne portanti dei programmi sinfonici che da Parigi si diffusero nel mondo.
Rimasero un capitolo a parte le opere teatrali, dalla deliziosa commedia shakespeariana Béatrice et Bénédicte alla colossale epopea virgiliana dei Troyens, che dovettero attendere un secolo per essere comprese. Berlioz seguendo l’esempio dei suoi maestri più venerati, Gluck e Spontini, si sentiva operista. Vocazione frustrata dal fiasco dell’opera in cui voleva compendiare passato e presente, Benvenuto Cellini (1838).
Un’opera ancor oggi difficile da allestire, come ricorda uno dei massimi studiosi berlioziani, David Cairns, «per il coro, specialmente nella vivida e tumultuosa scena del Carnevale, ma anche e di più per l’orchestra che procede a gran velocità, con continui cambi di accenti, con uno strumentale affilato come una lama di coltello in un costante intrico ritmico-timbrico». L’impreparazione del suo tempo alle sue tante novità valsero all’autore del Cellini una celebre caricatura: issato sopra un teatrino di burattini, il musicista soffia e agita una selva di strumenti brandendo un martello. Alla base una lapide ricorda «la grrrande rappresentazione di Malvenuto Cellini con pasquinate letterarie e arlecchinate musicali, al termine del quale verrà colata una grande statua… quella dell’autore».
Descritto spesso come balzano, bizzoso e bisbetico, Berlioz era «uomo tutto d’un pezzo, che non si piegava a concessioni o a compromessi», come scrisse Gounod: «chi cercava il suo “duro” giudizio non poteva attribuirlo alla vergognosa volubilità della gelosia, incompatibile con le alte proporzioni della sua natura nobile, generosa e leale».