Non saprei dire se vi fosse grande attesa presso i lettori comuni, certo gli addetti ai lavori aspettavano con ansia questo nuovo commento a La bufera e altro di Eugenio Montale, raccolta pubblicata a Venezia da Neri Pozza nel 1956 e subito indicata come il vertice della sua poesia. Un’attesa data anche dagli avvicendamenti in corso d’opera tra i curatori (a Massimo Gezzi era nel frattempo subentrata Ida Campeggiani), da un cambiamento di sede editoriale e, più in generale, dalle vicende sempre tormentate delle collane di poesia, costantemente in sentore di rigor mortis. Comunque sia, la mole del volume che esce oggi nello «Specchio» Mondadori è l’esito di uno sforzo che va senza dubbio festeggiato, perché corrisponde allo spazio occupato da Montale nella poesia italiana del Novecento (è il tema del saggio introduttivo, non inedito, di Guido Mazzoni).
Al di là delle singole acquisizioni, che andranno indagate pezzo per pezzo, postillando ciascuno per sé questa nuova edizione (a chi scrive è mancato ad esempio qualche riferimento scritturale, specie in direzione di San Paolo), il libro conferma nel commento un’intuizione espressa in precedenza da Niccolò Scaffai, attorno al cosiddetto manierismo del terzo libro di Montale, dopo gli Ossi di seppia del 1925 e Le occasioni del 1939; una categoria estetica, quella del manierismo, privata in questo caso di accezioni negative e rispolverata per cercare di rispondere a una serie di domande cruciali: quando finiscono Le occasioni? quando inizia La bufera? e Finisterre, pubblicato clandestinamente a Lugano nel 1942 da Pino Bernasconi, auspice Gianfranco Contini, da che parte sta?
Che il confine tra due stagioni poetiche, in anni sconvolgenti come quelli che vanno dal 1939 al 1945-46 (poi è cosa acquisita), sia una linea che balza avanti e indietro a seconda delle interpretazioni e delle letture, anche d’autore, è un fenomeno che non smette di interrogare chi si occupa di letteratura, perché si situa allo snodo esatto tra vocazione poetica e destino collettivo, tra memoria individuale e consuetudini editoriali, insomma tra arte e vita, con tutto quel che ne consegue. Montale, che sempre giocò con queste categorie, specie negli ultimi anni (anche senza considerare il Diario postumo a lui attribuibile), tra Occasioni e Bufera è più Montale che mai e, verrebbe da dire, malgré lui.
L’enorme numero di rimandi al libro precedente e, all’interno di quello, a una poesia inaggirabile come Nuove stanze (lo «specchio ustorio» e gli «occhi d’acciaio» di Irma Brandeis già quasi mutata in Clizia-Iride) è una delle chiavi di lettura del commento di Ida Campeggiani, cui si devono tutte le sezioni tranne l’ultima, curata da Scaffai. Nemmeno mancano affondi tesi all’individuazione di archetipi letterari italiani, delle origini (soprattutto Dante) e dell’Otto-Novecento (soprattutto Leopardi e D’Annunzio), senza dimenticare una produzione europea intesa in termini vasti, sia cronologici che geografici, dal poeta protestante francese Théodore Agrippa d’Aubigné (1552-1630) all’inevitabile Eliot, e naturalmente Shakespeare, Garcia Lorca, Nerval, Goethe… Montale appartiene, per indole e per circostanze, a quella stagione della cultura italiana che gli eventi bellici avevano forzato, più di altre, oltre i confini consueti, in cerca di un sollievo e di un senso che la quotidianità asfittica di quegli anni non aveva saputo e potuto offrire. Dal suo imbuto, filtrati da un’intelligenza vivace e onnivora, passano decine di autori e persino ‒ questo uno dei principali meriti del commento, che mette a frutto intuizioni di Marica Romolini (2012) ‒ prodotti della cultura non letteraria, come il cinema e il melodramma.
Non credo sia un’esagerazione affermare che con questo libro di Campeggiani e Scaffai si inaugura una nuova fase negli studi montaliani, non fosse altro che per le consuete dinamiche di azione-reazione, di accettazione e rifiuto, che una simile operazione inevitabilmente suscita. Ci si potrebbero attendere, ad esempio, alcune obiezioni sul fronte della leggibilità: gravato da prefazioni, introduzioni, postfazioni e note densissime, il testo di Montale quasi sparisce, sommerso dagli apparati (l’impaginazione di questo nuovo «Specchio», che rifiuta gli stacchi di pagina, da questo punto di vista non aiuta).
L’ostacolo è facilmente aggirabile tenendo aperta sul tavolo un’edizione «pulita» della Bufera, magari proprio la prima, o una Mondadori degli anni Settanta. Resta però il fatto che questo genere di commenti, inaugurato da Contini nel 1939 con la celebre edizione delle Rime di Dante, e continuato da Dante Isella proprio con Montale, sembra avere perso per strada quelle caratteristiche che ne avevano fatto la fortuna: essenzialità ed efficacia. Il libro di oggi è molto più simile a una monografia (ricca e articolata) che a un’edizione commentata propriamente intesa.