Negli ultimi anni, la scena musicale d’oltreoceano ha visto rifiorire un ampio e attivissimo sottobosco «alternativo», dedito a quella forma di rock «made in America» che, pur arrivando raramente a toccare le vette delle classifiche commerciali, sta via via raccogliendo sempre più consensi, al punto da poter oggi contare su un discreto e crescente pubblico di appassionati. Il cosiddetto «alternative rock» è così divenuto una vera e propria branca a sé stante della già ampia e variegata offerta che la categoria di musica leggera più popolare di sempre può vantare; e non vi è dubbio che, all’interno di questo gettonatissimo genere, uno dei nomi di maggior spicco dell’ultimo decennio sia stato quello dell’oggi quarantaduenne Ryan Adams.
Spesso confuso con il quasi-omonimo (ma ben più stagionato) collega canadese Bryan Adams, il performer della North Carolina è salito alla ribalta come solista nel 2000 dopo una militanza di qualche anno nella sottovalutata band country-rock dei Whiskeytown; e benché dischi come Heartbreaker (2000) e Love Is Hell (2004) siano stati accolti da un notevole successo di critica, dal punto di vista commerciale Adams non è mai riuscito a raggiungere vendite davvero stellari. Tuttavia, il suo «zoccolo duro» di fan è tutt’altro che trascurabile, e ha quasi unanimemente espresso entusiastica approvazione all’uscita di questo nuovo Prisoner – il quale, fin dal primo ascolto, si distingue come un perfetto compendio del rock targato USA degli ultimi venticinque anni, condito dall’alquanto nostalgica e malinconica interpretazione di Ryan, il cui mood compositivo è qui fortemente influenzato dal recente divorzio dalla moglie Mandy Moore.
Ne consegue che Do You Still Love Me, l’efficace singolo di lancio dell’album, si presenta come un’irresistibile ballatona rock in puro stile anni 80, il cui sound ipnotico – un curioso mix tra le sonorità dei Foreigner di Lou Gramm e quelle di un’altra storica formazione del periodo, gli Whitesnake – di certo non mancherà di mandare in estasi i più accaniti tra i fan di Adams.
Del resto, bisogna dire che, fin dai suoi esordi, Ryan non si è mai distinto per particolare originalità compositiva o interpretativa, in quanto la sua musica costituisce da sempre una perfetta combinazione di American rock e cantautorato anni 90, realizzata secondo i dettami stabiliti da nomi quali Springsteen e Prince, ma in più condita con un gusto chitarristico crudo ed estremamente efficace, in cui la voce ruvida ma espressiva di Adams sembra esplorare i recessi più profondi dell’emotività umana. Questo nuovo album ne è esempio perfetto, come dimostrato anche dai brani più delicati – ad esempio i romantici To Be Without You e Shiver and Shake, ottimi esempi di soft rock riflessivo e d’atmosfera.
E si potrebbe dire che forse siano proprio l’immediatezza e onestà della musica di Ryan – il modo in cui qualsiasi ascoltatore può subito riconoscersi nei suoi accordi rabbiosi e al tempo stesso aggraziati, e la naturalezza del suo timbro vocale – ad aver fatto la fortuna di questo performer, un po’ come successo, su scala planetaria, al già citato Bruce Springsteen. Lo si può notare anche in una traccia come Doomsday, che beneficia di un potente e suggestivo attacco di armonica e contiene echi dei classici di artisti quali Cock Robin (band americana che nel magico decennio degli Eighties firmò brani memorabili come Just Around the Corner e When Your Heart is Weak), e perfino Tom Petty e i suoi Heartbreakers. Lo stesso si può dire della title track, Prisoner, un lento intenso e malinconico nella migliore tradizione del cantautorato statunitense anni 90; in questo senso, anche Haunted House, dotato di un testo intrigante e a tratti toccante, può considerarsi un esperimento riuscito.
Ma uno dei brani più convincenti resta senz’altro l’amaro Breakdown, sorta di ballata disincantata e rabbiosa in cui, ancora una volta, Adams riesce a coinvolgere l’ascoltatore fin dalle prime note. Da parte sua, seppur animato da considerevole energia, un pezzo come il ritmato Outbound Train non possiede la medesima forza, finendo per apparire come una riproposizione un po’ ripetitiva di altre composizioni dell’artista; risulta invece molto più mosso e originale il frenetico Tightrope, il quale conferma l’impressione che, in questa fase della sua carriera, Ryan tenda a privilegiare brani quanto più possibile travolgenti.
In definitiva, Prisoner costituisce ulteriore riprova del fatto che, per quanto non possiamo ambire a trovare in Ryan Adams un artista destinato a rivoluzionare il mondo della musica leggera, egli resta comunque un ottimo e onesto professionista, sul quale è sempre possibile fare affidamento per del sano rock «verace»; così, sebbene quest’album non riservi all’ascoltatore alcuna vera sorpresa o inaspettata rivelazione stilistica, resta un prodotto di cui qualsiasi vero rocker può essere più che orgoglioso – particolare non da sottovalutare, soprattutto in un’epoca come la nostra.