Mitragliare, anzi cantare

Il nuovo lavoro di Kendrick Lamar (classe 1987), grazie a testi intelligenti e a un indiscusso genio musicale, ha tutte le carte in regola per diventare una pietra miliare della musica contemporanea
/ 08.05.2017
di Simona Sala

È vero che viviamo nell’era dei numeri e dei clic, che probabilmente non vogliono dire tutto, ma quando il sovraffollato mondo musicale si rende conto nello stesso momento della nascita di un fenomeno, allora anche i record finiscono per avere un senso. Humble, l’enigmatico inno all’umiltà e alla bellezza naturale delle donne di Kendrick Lamar, in cui chiede il ritorno perfino delle smagliature, è apparso su youtube un mese fa con un video pieno di rimandi religiosi (un’ultima cena dimezzata con tanto di rapper-apostoli) che è già stato visualizzato oltre 140 milioni di volte.

Eppure il rapporto con la fede di colui che è stato eletto portavoce musicale del movimento attivista internazionale #Black Lives Matter è perlomeno controverso: se da un lato in Fear sostiene che «Whatever Happens on Earth Stays on Earth» (sulla scia del più celebre «Quello che succede a Las Vegas rimane a Las Vegas»), dall’altro in Humble e Feel si lamenta che nessuno preghi per lui, ora che le nonne sono morte. Già il precedente To Pimp a Butterfly del 2015 aveva mandato in visibilio pubblico e critica, arrivando a scomodare nientemeno che Barack Obama, forse per quella foto di copertina scattata proprio davanti alla Casa Bianca, ma questa volta siamo in odore di consacrazione. Soprattutto se si considera che il nome del giovane rapper di Compton devoto agli ideali e alle tematiche care al compianto 2pac Shakur, rimbalza da una testata all’altra del pianeta, tirando in ballo giornalisti, critici e ammiratori. Mettendoli di nuovo miracolosamente d’accordo.

Hip hop per intellettuali? Dopo il rap chirurgico e ormai forse troppo commerciale dei vari ego di Marshall Mathers-Eminem, che sembrava averci detto tutto del disagio psico-sociale delle minoranze statunitensi, indipendentemente dal colore della loro pelle, i giochi di metrica e assonanza parevano esauriti. Attualmente sul mercato i brani anche potenti di mostri sacri come Jay Z e Lil Wayne (soci in affari con Tidal) o Kanye West (che ha abbandonato temporaneamente l’ambizione di diventare presidente degli USA dopo il ricovero in clinica psichiatrica) non riescono ad avere un impatto globale e simultaneo paragonabile a quello del minuto musicista statunitense di Kendrick Lamar, che ispirò perfino David Bowie durante la realizzazione di Blackstar. Perfino Drake (cui la città natale di Toronto non si stanca di dedicare strade e locali), pur avendo trovato un flow passe-partout, immediatamente riconoscibile, ultimamente risulta sempre un po’ uguale a se stesso.

Sono quattordici i brani di Damn («Maledizione»), e portano tutti titoli di una sola parola dal sapore quasi perentorio: Love, Damn, Fear, Good, Blood. Sono zeppi di riferimenti biblici, ma parlano, sebbene ricorrendo alle metafore e al non detto, anche dell’interminabile guerriglia quotidiana delle strade, di un vago senso di colpa e di un’attenzione costante verso gli accadimenti del mondo – distinguendosi in questo dalla stragrande maggioranza dei brani hip hop, che ruotano intorno a bitches e soldi. Proprio in questi giorni, il rapper A Boogie Wid Da Hoodie nel malinconico Drowning si lamenta della difficoltà di portare al collo catene d’oro tanto pesanti. Nemmeno le donne sembrano volersi sottrarre a questi trend, prestandosi sempre più spesso all’interpretazione di brani che si spingono poco oltre il perpetuo ammiccamento sessuale, quando possibile sottolineando gli intenti verbali con quelli fisici, come dimostra la pur brava Nicki Minaj.

Kendrick non necessita di sotterfugi, pur non rinunciando al linguaggio di genere con il suo rosario di parole intraducibili e rivolgendosi esclusivamente ai suoi, ai nigga. Egli è già il migliore, consapevolezza che appare in Element (se già devi fare sentire la tua superiorità, almeno fallo in modo sexy), mentre l’iniziale Blood racconta di un uomo desideroso di aiutare una donna cieca intenta a cercare qualcosa – finirà ammazzato a colpi di pistola. Lust invece è forse la prima testimonianza, nel duro mondo del rap, di un uomo che chiede a una donna di potere entrare in casa, ma solo «se è okay» (e lei rispose «è okay»!). I riferimenti a politica, diseguaglianze e malessere sono spesso velati, accennati, inghiottiti da un flow ipnotico costellato di piccoli effetti sorpresa, specie laddove i generi musicali si mescolano, lasciando spazio a gospel, jazz, funk, con bassi che sembrano mitragliate. Non mancano le ospitate, con l’inconfondibile voce dell’immensa Rihanna, un understated Bono degli U2 e Zacari.

Ma la sorpresa più dolce – l’aggettivo è quello giusto – è in brani come Pride, dove il falsetto che ricorda Prince (a un anno dalla morte sono in tanti a calcarne le orme, basta farsi un giro dalle parti di Bruno Mars e Jason Derulo) trema e indugia in una piccola melodia raccontata, nel segno dell’aspetto autenticamente poetico che tutti riconoscono all’artista. Un’attenzione che, forse involontariamente, si esprime perfino attraverso la pronuncia, grazie alle «s» strascicate che si stemperano in «sch», fondendosi con il flusso di quella che si rivelerà una vera e propria esperienza di ascolto.