Di passaggio dal prestigioso festival della fotografia di Arles, i Rencontres de la photographie, e prima di giungere al Fotomuseum de l’Aia – il cui direttore è appunto Wim van Sinderen che ha curato l’esposizione – Lifes in the cities di Michael Wolf è la prima importante esposizione del fotografo noto per aver vinto in ben due occasioni, nel 2005 e il 2010, il World Press Photo. Tra le due tappe, ecco comparire una sosta a Chiasso allo Spazio Officina, in collaborazione con l’Associazione della Biennale dell’immagine, per la decima edizione della manifestazione che ha per tema «Borderlines. Città divise, città plurali».
Artista cosmopolita di nascita tedesco, dopo aver lavorato inizialmente come fotoreporter per Stern in Oriente, Wolf si è stabilito a inizio anni Novanta ad Hong-Kong: la città simbolo del dinamismo economico contemporaneo e che incarna perfettamente la visione di un società post-moderna, divenuto il luogo dove, dal 2001, egli porta avanti da indipendente numerosi progetti fotografici.
È qui, nell’ora ex-colonia britannica, che l’autore inizia a rappresentare nel 2003 una delle sue serie più famose e conosciute: Archicteture of Density. Si tratta di immagini di grande dimensioni (nell’allestimento allo Spazio Officina in un suggestiva modalità sospesa) in cui si riprende frontalmente una porzione dell’impressionante panorama offerto dai grattacieli e dalle abitazioni della città, dove proprio l’esiguità degli spazi spinge le architetture sino al parossismo, determinandone la caratteristica ricchezza visiva.
Senza cielo in alto né strade alla base, queste immagini ci offrono un quadro claustrofobico e dettagliato, una sorta di alveare per uomini. Con i loro colori sgargianti e il loro ritmo compositivo, ad uno sguardo d’insieme, esse sembrano acquistare addirittura carattere astratto, incarnando in qualche modo l’incubo di Thomas Robert Malthus circa l’esplosione demografica del pianeta.
Tema chiave, quello della compressione, anche per un’altra fortunata serie Tokjo Compression. Qui sotto pressione del numero troviamo gli anonimi lavoratori della megalopoli giapponese. Pigiati, schiacciati e soffocati nei vagoni del metropolitana, i volti di questi lavoratori – alcuni ad occhi chiusi, altri dallo sguardo assente – sono prove e metafore attualissime dell’inumanità del lavoro contemporaneo.
Chiamato in Occidente in occasione di importanti commissioni, Wolf, per sua stessa ammissione, non capta la stessa tensione visiva. Tuttavia riesce a tradurre la sua visione a volo d’uccello in una sorta di voyerismo cittadino, a metà strada tra Blade Runner e La finestra sul cortile di Hitchkock, nella serie Trasparent city.
È proprio a questo punto della sua carriera che si compie un ulteriore salto concettuale nel suo stile: non scatta più egli stesso le immagini, ma ripropone frammenti visivi tratti da Google Maps, la digitalizzazione globale delle strade messa in campo dal colosso informatico. In questa sequenza pressoché infinita egli ha la pazienza di isolare frammenti curiosi, insoliti e incongruenti: volti sfuocati e anonimi che si trasformeranno, anche inglobando i segni grafici della navigazione sullo schermo, in quadri composti da un mosaico di pixel.
Con questo progetto Wolf sembra decretare due dati: il primo è la fine della street-photography come la conosciamo finora, poiché idealmente si dimostra che tutto è già stato fotografato. Il secondo, ancora più inquietante, simboleggia e riguarda l’assoluto dominio dei giganti della rete nella nostra visione del mondo: di fatto, come sembrano suggerire le immagini, conosciamo il mondo come ci viene lo proposto e non com’è realmente. Quotidianamente, a Google, come ad un oracolo, chiediamo risposta ai nostri quesiti e, soprattutto, ci fidiamo della risposta.
Con l’attuale esposizione allo Spazio Officina, possiamo dire che l’Associazione della Biennale dell’immagine ha compiuto, oltre ad un grande sforzo organizzativo, anche una sorta di omaggio indiretto a quanto organizzato nelle precedenti edizioni della rassegna chiassese.
In Michael Wolf infatti si rintracciano le visioni aggiornate della street-photography di Vivian Meier, felice riscoperta proposta nel 2012 (addirittura ne fotografa lo stesso edificio, i due Marina City di Chicago), e possiamo ritrovare un certo voyerismo che caratterizza anche l’opera di Beat Streuli (2014). Per quanto riguarda l’Asia come territorio d’elezione, egli ripropone scenari orientali analizzati dall’opera di altri autori quali Edward Burtinsky (2006), Andreas Siebert (2004, 2008) e Georg Aerni (2004) – quest’ultimi due autori svizzeri sono presenti nella collettiva all’OnArte di Minusio, organizzata dalla Galleria ConsArc di Chiasso.
In breve, quindi, Wolf fa parte di coloro che, nella scena artistica attuale, rivestono il ruolo di moderno Marco Polo, e forse tra di essi possiamo dire che sia il più spettacolare e scenografico narratore. Propone una sorta di Il Milione contemporaneo composto per immagini, con la differenza che quel mondo allora lontanissimo oggi ci appare, nel bene e nel male, assai vicino.