Dove e quando
Julia Fischer sarà ospite al LAC di Lugano il 28 marzo con la BBC Philharmonic Orchestra e il 29 marzo con il violoncellista Daniel Müller-Schott. www.luganomusica.ch

 

 


«Mi sento più una monaca che una star»

A colloquio con la violinista Julia Fischer, «artist in residence» al Lac di Lugano nelle prossime settimane
/ 13.03.2017
di Enrico Parola

A 34 anni da compiere il 15 giugno Julia Fischer non fa più parte delle «lolite dell’archetto», la generazione di violiniste belle e brave come Hillary Hahn e Janine Jansen che nell’ultimo ventennio, dopo l’archetipo Anne-Sophie Mutter, si sono accese nel firmamento musicale classico. Perché per la virtuosa bavarese l’estetica conta poco: «Scelgo i vestiti in base alla comodità, salirei sul palco senza trucco ma la volta che l’ho fatto ci sono state tante di quelle storie… Ho anche ricevuto un’offerta per un servizio su “Playboy”, non l’ho neppure presa in considerazione». Soprattutto perché per lei la musica «è una religione: io mi sento più una monaca che una star, suonare è un atto di fede perché credo, come diceva il filosofo russo Solov’ev, che solo la bellezza salverà il mondo; nel mio piccolo lo sperimento quando devo suonare e sono di cattivo umore: lì la riuscita del concerto non dipende da me, anzi sono io la prima ad essere sollevata da quello che suono. Non riesco a stare senza musica: se una settimana non ho concerti vado comunque a teatro a sentire quelli degli altri».

Facile capire perché alla Fischer non interessi essere considerata la migliore: «È un concetto che si applica allo sport, non alla musica; non ho l’ossessione di fare tutte le note giuste, mi preparo al meglio ma l’errore è umano; e a differenza di alcuni sport i soldi non contano: certo, ne guadagno, ma lascio fare tutto al mio agente; intervengo solo se mi interessa fare una cosa ma non c’è il budget: lì suono anche gratis». Sarà comunque regolarmente pagata per le due serate al LAC dove è «artist in residence» di LuganoMusica: il 28 accompagnata dalla BBC Philharmonic Orchestra nel Concerto di Britten, il giorno dopo col violoncellista Daniel Müller-Schott, proponendosi anche nell’assai più desueta veste di pianista: accompagnerà il concittadino nella sonata Arpeggione di Schubert, incastonata tra quelle per violino e violoncello di Ravel e Kodaly.

«Io ho iniziato col pianoforte: mia mamma lo insegnava e a tre anni iniziò a darmi lezioni; però lo suonava anche mio fratello maggiore e così i miei genitori mi proposero di passare al violino, per dare un po’ di varietà in famiglia e poter fare musica assieme; accettai di buon grado e presto fu amore: la sera toglievo la bambola dal suo lettuccio e ci mettevo a dormire il violino; ma non ho mai abbandonato gli 88 tasti». Anzi: nel 2008, per il concerto di Capodanno all’Alte Oper di Francoforte, si è concessa il lusso più unico che raro di suonare il terzo concerto per violino di Saint-Säens e il concerto per pianoforte di Grieg: «Era molto rischioso, prima di provare Grieg ho chiesto scusa in anticipo agli orchestrali per gli errori che avrei commesso; ma alla fine andò bene».

Con Müller-Schott la Fischer ha inciso dischi e ha suonato spesso, in particolare il Doppio Concerto di Brahms: «Un brano fantastico perché mi permette di unire le due dimensioni che amo, quella del concerto solistico e quella cameristica, dove gli strumenti dialogano alla pari; in Brahms dialogo con Daniel mentre l’orchestra ci accompagna». Quasi a scusarsi di queste parole, che sembrano suggerire una superiorità del solista sull’orchestra, la Fischer sottolinea: «Non è detto che il solista suoni meglio dell’orchestrale, sono due carriere diverse che richiedono caratteristiche e predisposizioni diverse; talvolta imboccare una strada piuttosto che l’altra dipende dalla fortuna». La sua fortuna è stata solo quella di avere un talento fuori dal comune: a 12 anni iniziò a vincere alcuni dei più importanti concorsi internazionali e le si spalancarono le porte dell’Olimpo concertistico.

Da quei primi passi sono trascorsi vent’anni di vita pubblica, una vita illuminata dalle luci della ribalta. Solo quella pubblica però: «Non amo mettere sotto i riflettori la mai vita privata: ho una famiglia, una figlia, ma non rispondo ai giornalisti che mi fanno domande su questi temi né tantomeno sono attiva sui social per condividere quel che faccio quando non suono». Le uniche relazioni che accetta di raccontare sono quelle con i suoi violini: se la donna è monogama e fedele, la musicista ha avuto vari amori, nonostante alla fine abbia cercato un legame stabile anche con lo strumento: «Ne ho cambiati tanti, come è inevitabile. Ho imbracciato il primo violino 4/4 (cioè della dimensione standard, non quelli per bambini da 2/4 e 3/4, ndr) a dieci anni, ma parallelamente alla mia crescita artistica ho avuto tra le mani strumenti sempre migliori: prima un Ventapane, poi un Gagliano, quindi un Testore, nel 1998 un Guarneri del Gesù, ma nonostante fosse prezioso e bellissimo non mi ci trovavo».

È come con gli uomini: non è solo questione di bellezza o bravura, perché scatti la scintilla ci vuole qualcosa di particolare. «Infatti non mi è bastato neppure lo Stradivari che la Nippon Music Foundation mi mise a disposizione: era il «Booth» del 1716, aveva un suono eccezionale, mi soddisfaceva, ma dopo quattro anni sentii il desiderio di averne uno tutto mio; l’occasione arrivò nel 2004, grazie alle segnalazione del primo violino dell’Academy of St. Martin in the Fields (orchestra con cui la Fischer si è spesso esibita, ndr), che è un caro amico: a Londra comprai un Guadagnini del 1742. Da allora non l’ho più cambiato; ma le confesso che ci sono giorni in cui mi sembra che non suoni bene e il pensiero di cambiarlo mi viene… poi mi dico che sono forse io il problema e allora si va avanti insieme».

Anche perché il giorno dopo ecco ricrearsi la magia della musica: «Che è la possibilità di provare sentimenti ed esperienze che nella vita reale non si sono ancora vissuti: quando da bambini si esegue un brano in tonalità minore e si inizia a provare quella tristezza che non si sapeva di avere dentro, o quando suono Sostakovic e percepisco che cosa avesse dovuto essere la disumana oppressione del regime sovietico. È la grandezza della musica, la cui bellezza è tutt’altra cosa rispetto all’entertainment».