«Nella sua essenza più profonda, la poesia è la forma suprema della biografia. Al contrario, le epoche di mediocrità letteraria sono caratterizzate da una generale estraneità delle opere all’esistenza che le produce»: Emanuele Trevi offre un nuovo punto di vista per giudicare il proliferare di testi autobiografici che caratterizza la narrativa contemporanea, rispetto ai quali la critica tende istintivamente ad arricciare il naso. E se, come scrive Trevi, la poesia fosse davvero la forma suprema della biografia? E se il piacere che le persone provano a leggere testi autobiografici, in cui potersi facilmente immedesimare con l’io narrante non fosse da considerare peccato di gola, ma un piacere non solo condivisibile, ma anche esteticamente elevato?
Trevi, poi, propone un metro semplice e netto per distinguere tra i libri mediocri: «che potrebbero, con minime differenze, essere stati scritti anche da altre persone, tanto in loro è prevalente il carattere di prodotto e tanto la vita che ne è il presupposto si riduce a una carriera» e quelli che non lo sono. Se il racconto autobiografico potrebbe essere stato scritto dalla persona il cui nome compare sulla copertina come da altre che hanno caratteristiche simili, per età, genere sessuale e provenienza sociale, allora quel testo è un prodotto. Se invece ciò che leggiamo è catartico, anche se si tratta del racconto della vita della nonna dell’autore, è bene smettere di arricciare il naso e godersi l’esperienza della lettura.
Nel caso di questo libro di Emanuele Trevi, del tutto autobiografico, l’autore è riuscito a porsi nella condizione di estrema consapevolezza di Ivan Il’ič del racconto di Tolstoj che cita: «Ivan Il’ič ragiona sull’abissale differenza tra imparare a scuola che tutti gli uomini sono mortali e capire che, in quel dato momento, a tirare le cuoia è proprio lui e non c’è più niente come “tutti gli uomini”». Ecco, Trevi dà al lettore la sensazione che non ci sia «più niente come tutti gli uomini», per questo ciò che sta scrivendo lo comunica attraverso un ideale dialogo solo tra lui e te, che lo stai leggendo. Come è bello essere destinatari di una confidenza.
E di molti insegnamenti, che spaziano dalla storia dell’arte a quella della letteratura, sempre a partire da un approccio che resta umano, perché non dimentica la decadenza, anzi sorge dalla consapevolezza di essa: «questa è la vita umana, un nome e un lavoro incorniciati da due date, è questo che si prende la morte. C’è sempre poco da dire su ciascuno di noi, poco da ricordare, poco da incidere su un marmo bianco». A partire da tale consapevolezza della condizione umana, di Amelia Rosselli raccontata da Trevi ci rimane impresso il bisbiglio che lei fa in macchina «come un lievissimo lamento – forse un modo per tenere a bada il flagello delle voci interiori, degli spioni» e il fatto che di tutte le letture possibili, Rosselli gli consigli quella di Pitagora.
In un romanzo in cui il ritratto viene definito: «tra tutte le arti umane, ancora più della musica, la più filosofica, ovvero la più ostinata nella ricerca della verità», Trevi cerca il vero con lo strumento che meglio può aiutare a trovarla, allora: proprio il ritratto. Per questo, il racconto che scrive del suo amico Arturo Patten, grande fotografo statunitense del ’900, è il dipinto di un amico, talmente bello che si prova desiderio a vederlo comparire nelle pagine: «i lineamenti affilati e gli occhi chiarissimi gli davano l’aspetto di un uccello rapace, e nei tanti anni che l’ho frequentato a partire da quella sera ho sempre pensato a lui come a un falco […] Io adoravo Arturo per tanti motivi, ma al centro di tutto c’era la sua capacità di conoscersi».
Nel testo sono vari i ritratti pittorici sacri descritti come un incontro invece che come un oggetto d’arte, per questo il libro può essere utilizzato anche come guida turistica di eccellenza, per un viaggio a Roma alla ricerca dei luoghi in cui si nascondono capolavori artistici. Trevi fornisce informazioni sulle opere nascoste, a cui si sono sovrapposte opere d’arte più recenti e più celebri, come nel caso della chiesa di Santa Maria Odigitria.
Come i pittori hanno l’ardire di dipingere la Madonna, Trevi dall’alto di una spregiudicatezza liberatoria conquistata con lo studio ritrae Vittorio Alfieri come un invidioso: «quella che Alfieri non sopporta è la vista di un uomo sereno, realizzato». Accanto all’avverbio che Alfieri usa in Vita (1806) per descrivere il modo di comportarsi di Metastasio, che è la prima fonte di ispirazione di questo libro di Trevi, leggiamo: «Servilmente. Ma che cazzo ne sai!». Mentre si ride di gusto per questa impertinenza, Vittorio Alfieri e Metastasio ritornano vivi, riemergono dalla sabbia dei testi di storia della letteratura in cui ce li ricordavamo mummificati, perché se «è pure vero che del tempo che ci è concesso noi facciamo un solo uso: lo perdiamo, non sappiamo fare altro che perderlo» l’incontro con un testo, un’opera d’arte, resta tra i modi migliori che esistono per perdere tempo, cioè per vivere.