Concorso

«Azione» mette in palio tra i suoi lettori
alcune coppie di biglietti per il concerto dell’OSI.

Per partecipare seguire le istruzioni pubblicate
nella pagina www.azione.ch/concorsi

Buona Fortuna!


Metti un sitar nell’orchestra

In concerto - Il 7 novembre al LAC (20.30) l’Orchestra della Svizzera italiana incontra la solista indiana Anoushka Shankar eseguendo la sua Suite from Reflection
/ 28.10.2019
di Enrico Parola

Probabilmente l’accostamento spiazzerà assai più gli avventori dell’Orchestra della Svizzera Italiana che i seguaci del sitar. Perché certo, leggendo la locandina del concerto che l’Osi ha in programma il 7 novembre non si può trattenere un moto di sorpresa: Markus Poschner, che ha abituato il pubblico luganese alle sue interpretazioni del grande repertorio tanto appassionate per temperamento quanto chirurgiche per concertazione, parte da un grande classico del Novecento, la suite dal balletto di Stravinskij L’uccello di fuoco, ma poi vi accosta Suite from Reflection di Anoushka Shankar e Manu Delago, dove compaiono come strumenti solisti il sitar e l’handpan.

Già, proprio lo strumento più iconico della musica indiana, una sorta di liuto orientale dove la melodia viene ottenuta pizzicando tre corde, con le altre a fare da accompagnamento armonico. La fama planetaria del sitar si deve al padre di Anoushka, Ravi Shankar: col suo strumento fu protagonista nel 1969 a Woodstock, e già due anni prima aveva partecipato al festival di Monterey; e fu l’insegnante di George Harrison: il chitarrista dei Beatles lo inserì nell’album Rubber Soul, suonandolo in Norwegian Wood. Ovviamente l’esempio della band britannica fu contagioso e il sitar prestò il suo timbro inconfondibile anche ai Rolling Stones (Paint It Black), agli Yes e in tempi più recenti ai Metallica (Wherever I May Roam) e agli Oasis (To Be Where There’s Life).

Se erano conciliabili le sonorità elettriche del rock e del metal, lo furono ancor più quelle sinfoniche delle orchestre: Zubin Mehta, commissionò a Ravi un concerto per sitar e orchestra da eseguire assieme ai Berliner Philharmoniker; ne uscì una pagina splendida che la stessa Anoushka ha suonato alla Philharmonie berlinese. Zubin è il nome anche di suo figlio, scelto proprio in onore di Mehta: «Dieci anni fa mi incontrai a Delhi con un regista, Joe Wright, che voleva girare un film dal titolo Estate indiana. Della pellicola non se ne fece nulla, ma da quella cena nacque per noi qualcos’altro: ci siamo sposati ed è nato Zubin» racconta Anoushka, che ha avuto come insegnante il padre: «Mi regalò un sitar in miniatura quando avevo sette anni, ma non fu un colpo di fulmine: è uno strumento insidioso, per nulla semplice a livello tecnico; ma ero tenace, mi applicai e ne riuscii a capire la meccanica e le capacità espressive».

Con la musica cambiò il rapporto padre-figlia: «Lui divenne il mio guru, il mio idolo artistico, e io per lui non ero semplicemente la figlia, ma l’allieva prediletta cui poteva davvero consegnare un’eredità musicale». Padre e figlia suonarono assieme in pubblico da quando Anoushka era una teenager fino a pochi mesi prima della morte di Ravi, avvenuta nel dicembre 2012. Come le capita periodicamente, quando viene chiamata come solista nei Concerti scritti da Ravi, a Lugano si troverà sul palco con un’orchestra; un’esperienza che considera «sempre elettrizzante: essere avvolta da così tanti strumenti, sfidare una potenza sonora che potrebbe spazzarmi via e che invece può creare un equilibrio sì delicato ma inaudito e bellissimo, mi stimola tantissimo».

Ulteriore suggestione, una commistione non solo timbrica ma anche etnica: solista accanto a lei sarà Manu Delago con l’handpan, uno strumento ideato solo dodici anni fa come rivisitazione dell’hang, idiofono formato da due semisfere appiattite in acciaio, dal diametro di circa mezzo metro, che è stato creato non in qualche Paese orientale, ma in Svizzera, nel 2000.