Un famoso direttore d’orchestra italiano, Tullio Serafin, diceva che nella Bohème di Puccini il direttore d’orchestra doveva stare in stato di pre-infarto fino all’ingresso di Mimì nel primo e nel quarto atto. Serafin si riferiva alla densità degli avvenimenti che richiede estrema attenzione ed elasticità continua da parte dell’orchestra e della sua guida. Ventidue anni fa quel monito si stava trasformando in tragica profezia, perché il direttore lettone Mariss Jansons (1943-2019) ebbe un drammatico infarto proprio dirigendo Bohème a Oslo. Una tragedia che stava per ripetersi: il padre Arvīds era morto proprio d’infarto sul podio della Hallé Orchestra a Manchester.
Un momento che ha segnato una cesura drastica nella sua vita, come dichiarò lo stesso direttore lettone: «In un momento in cui sei tra la vita e la morte, cominci ad analizzare cos’è realmente la vita. Perché siamo qui? Che cosa è importante? Non sono Mahler, ma mi sono posto le domande che lui fa molte volte nelle sue sinfonie. Sento di essere diventato molto più ricco, un musicista più profondo, più bravo a sostenere tempi lenti. Non posso dire che abbia cambiato completamente la mia mentalità ma mi ha dato nuove caratteristiche, nuove prospettive».
Tutto quanto si può ascoltare nelle splendide incisioni delle sinfonie di Mahler con la Concertgebouw Orchestra di Amsterdam (pubblicate dall’etichetta dell’orchestra RCO), dove la concertazione di Jansons asciuga le sonorità e scova le radici più profonde della nostalgica «viennesità» di Mahler. Un Mahler moderno e antico, un titano che aveva un piede nel tardo romantico fine Ottocento e presentiva i cataclismi del Novecento.
Il sentito cordoglio mondiale che ha accompagnato la notizia della morte di Jansons teneva presente il coraggio con cui affrontò quotidianamente il rischio di dirigere con passione il repertorio sinfonico (i prediletti cicli sinfonici di Rachmaninov e Sostakovic, Beethoven e Bruckner, Mahler e Strauss) e le rare ma luminose sortite operistiche con la spada di Damocle sul capo. Il destino della famiglia Jansons era la direzione d’orchestra. Una fotografia ritrae Mariss in calzoni corti bianchi accanto al padre che lo cinge sulle spalle, mentre con la destra dirige. Davanti a loro al pianoforte, Sviatoslav Richter.
Mariss, nato durante l’occupazione nazista della Lettonia, aveva succhiato la musica dal seno materno – la madre Irida era soprano nello stesso teatro di Riga dove il padre era direttore musicale. «Mi portavano al lavoro tutti i giorni perché non avevano una babysitter. Ho trascorso i miei giorni fino a quando sono andato a scuola circondato dall’opera, ascoltando prove e spettacoli: conoscevo anche quasi tutti i balletti in repertorio.» Il piccolo Mariss leggeva le partiture paterne e ne imitava i gesti. Orme che seguì letteralmente diventando, come il padre, assistente del temuto e grande direttore della Filarmonica di Leningrado, Evgenij Mravinskij. Leningrado oggi San Pietroburgo e la sua orchestra rimasero un punto fermo: «un’orchestra con un suono fantastico, molto coltivato, soprattutto gli archi – era la migliore orchestra in Unione Sovietica ed è la migliore orchestra in Russia».
Con «cervello lettone e cuore russo» Mariss Jansons ha asceso i vertici direttoriali, prima creando dal nulla l’Orchestra Sinfonica di Oslo, poi nei periodi alla direzione musicale del Concertgebouw di Amsterdam e dell’Orchestra della Radio bavarese a München. Sempre con l’eleganza del tratto, con la discrezione di un anti-divo che aveva bene in chiaro la vanità dello star-system e riconoscente al suo maestro viennese Hans Swarowski e a Herbert von Karajan che lo avrebbe voluto come suo assistente per più tempo se le autorità sovietiche non gli avessero negato un soggiorno più lungo, si è tolto la soddisfazione di guidare magnificamente e più volte il Concerto di Capodanno della Filarmonica di Vienna, con tutte le qualità di leggerezza e verve, di rubati e classe che ci vogliono per quella sublime musica in tempo di tre quarti. Do svidanya, Maestro.